Intervento Renate Siebert Forum 2008
Il movimento del Sessantotto in Germania
(la mia esperienza)
di Renate Siebert
Il così detto ’68 è stato indubbiamente un decennio di movimenti a carattere internazionale. Tuttavia, mi pare molto importante cogliere di volta in volta le specificità locali e nazionali legate alla storia particolare dei vari paesi. Inoltre, le particolarità dei diversi sistemi politici del ‘900 – dalle democrazie borghesi ai totalitarismi nazi-fascisti e comunisti – hanno avuto ripercussioni sui rapporti intergenerazionali e come tali hanno inciso sul carattere più o meno anti-autoritario dei movimenti di protesta del secondo dopoguerra e del sessantotto in particolare. La mia esperienza è legata alla storia tedesca, all’eredità nazista allora poco elaborata, all’esistenza delle due Germanie e alle vicende delle lotte antiautoritarie degli anni ’60 nella Repubblica Federale. La DDR, la Repubblica Democratica Tedesca (non riconosciuta come tale dalla Germania Federale) appariva silente, dopo le rivolte degli anni ’50 soffocate nel sangue, e dopo la costruzione del muro di Berlino. Quest’altra Germania, sorella povera, brutto anatroccolo, per noi era territorio vietato per eccellenza, una sorta di tabù, un territorio rimosso, demonizzato dalla propaganda anticomunista, quasi onirico nella sua irrealtà.
Vorrei iniziare con una citazione di Adorno nella quale echeggiano i due poli di una tensione che ha fortemente caratterizzato la mia generazione – in modi a volte drammatici e infelici, ma anche fecondi – e che ha molto a che fare, a mio avviso, con il sessantotto in Germania: “L’esperienza sarebbe l’unione fra tradizione e aperta nostalgia di ciò che è straniero, estraneo”. Esperienza, tradizione, nostalgia dell’altro e di ciò che è altro… L’esperienza richiede un rapporto elaborato col passato che consente una proiezione verso il futuro – entrambi aspetti altamente confusi e inquietanti per i giovani tedeschi negli anni ’50, per gli allora giovani della mia generazione. Un passato minaccioso e cupo, affogato dentro un silenzio impenetrabile circa il recente nazismo e la Shoah. Un futuro vago dal sapore grigio entro relazioni famigliari e intergenerazionali strette e opprimenti. Il clamore assordante della guerra fredda, delle tensioni per il riarmo (atomico?) della Repubblica Federale e dell’ipocrita propaganda anticomunista tesa a “salvare i fratelli e le sorelle” della “Germania dell’Est”. Un contesto di vita quotidiana, quello degli anni ’50, in cui vivere e crescere da adolescenti era un’impresa altamente contraddittoria, se è vero, come annota Adorno in una lettera scritta nel 1950 a Leo Löwenthal, poco dopo il suo rientro dall’esilio negli Stati Uniti, che i giovani di questa prima generazione post-nazista erano particolarmente, ferocemente affamati di verità: “Il mio seminario assomiglia ad una scuola talmudica… sembrerebbe come se gli spiriti degli intellettuali ebrei assassinati fossero transitati negli studenti tedeschi. Silenziosi, conturbanti (unheimlich). Ma proprio per ciò, nel vero senso freudiano, anche proprio infinitamente accoglienti (anheimelnd)” 1. Un passato tutto da conquistare attraverso un lavoro del lutto – il sogno e l’utopia di un futuro radicalmente “altro” – e un presente segnato da un grande bisogno di chiarezza. Nel presente degli anni ’50 – indubbiamente periodo di incubazione dei movimenti del ’68 – le élite autoritarie che dal nazismo erano transitate al dopoguerra apparivano come coloro che maggiormente bloccavano l’utopia di un futuro riconciliato. Giustamente Uwe Timm, scrittore (e compagno di generazione) che racconta la vita breve dello studente Benno Ohnesorg ucciso dalla polizia durante una manifestazione contro la scià di Persia il 2 giugno del 1967 a Berlino, paragona questa élite ad una forza di occupazione: “Contro quella élite, contro l’establishment che la mia generazione avvertì come una forza di occupazione, si indirizzò la rivolta, all’inizio come protesta emotiva, come rivolta individuale, estetico-morale” 2. Personalmente, ad esempio, ricordo molto bene quanta importanza ebbe per la mia formazione esistenziale e politica la prima mostra d’arte contemporanea, la “documenta” a Kassel, la mia città. Si svolse alla fine degli anni ’50 e ci fece conoscere l’arte degenerata, messa al bando dal regime nazista: l’impressionismo, l’espressionismo e le prime istallazioni dell’arte contemporanea. Con un gruppo di amici del liceo – senza alcuna guida adulta – ci davamo ogni giorno appuntamento nelle sale della mostra, conoscevamo e riscoprivamo giorno per giorno ogni quadro e, direi senza alcuna pretesa di tipo specialistico-estetica, ci aggiravamo tra queste tele sentendoci finalmente un po’ di più “a casa”.
Io sono nata a Kassel nel 1942, faccio quindi parte di quella generazione del dopoguerra che negli anni ’50, negli anni dell’adolescenza, ha subito il trauma di vedere crollare ogni riferimento, ogni autorità adulta credibile: ci sentivamo “orfani”, in mezzo ad adulti devastati dal nazismo, colpevoli e silenziosi. Un silenzio conturbante ci avvolgeva, un’angoscia muta della guerra e delle distruzioni attraversava le relazioni, il tabù dei campi di sterminio – il grande non detto di quegli anni – pesava come un macigno. E noi volevamo sapere, conoscere la verità. Ricordo scontri violentissimi con gli adulti, genitori, parenti, insegnanti… niente. Loro rimanevano muti, tutt’al più negavano. Ci sentivamo colpevoli, eravamo colpevoli. Mi vergognavo per loro, ci vergognavamo senza avere risposte. Solo arrivata all’università – il passaggio dalla scuola e dalla famiglia a Kassel all’Istituto a Francoforte – finalmente orfana tra orfani (in senso metaforico) si intravedevano nuovi riferimenti, nuovi “padri”, nuovo orizzonti. Nel mio caso erano maestri al di sopra di ogni sospetto, gli intellettuali della Scuola di Francoforte come Horkheimer, Adorno, Marcuse e altri, in gran parte ebrei perseguitati e esiliati durante il regime nazista e ritornati in Germania per rifondare un sapere critico sulla società.
Simili incontri hanno dato alla mia generazione di orfani una dimensione del presente capace di nutrirsi di uno sguardo meno sperso, ci hanno dato speranza, una possibilità di futuro. Una possibilità di futuro, tuttavia, che doveva attraversare il trauma del nazismo e del genocidio degli ebrei, dello sterminio dei “diversi” come gli zingari, gli omosessuali, i testimoni di Jeova e gli handicappati. Tale conquista del passato richiedeva in un certo senso un viaggio agli inferi.
Il clima ideologico degli anni della guerra fredda – melenso, ipocrita e estremamente aggressivo – ha indubbiamente contribuito a rinforzare la nostra durezza nei confronti della generazione dei nostri padri e delle nostre madri. Voglio dare ancora voce a Uwe Timm: “Noi, la mia generazione eravamo cresciuti quasi tutti nell’opposizione ai padri, educati invece all’obbedienza e a conquistare il mondo e che avevano perso la guerra, i padri coinvolti consapevolmente, o ben determinati a non voler saperne nulla, nell’uccisione in massa di ebrei, sinti e rom, e i quali in seguito, sia che avessero combattuto con audacia sia che avessero lavorato zelanti nell’industria degli armamenti, dopo la guerra avevano dovuto accettare controvoglia di farsi rieducare, mantenendo tuttavia con tenacia il loro stile di vita avvezzo agli ordini che imponevano ostinatamente nelle famiglie, nelle associazioni, nei partiti, pretendendo obbedienza, loro erano stati insegnanti, giudici, pubblici ministeri, ufficiali, che avevano continuato a prestare servizio, erano stati membri del partito e ora, sotto la pressione delle potenze vincitrici in Occidente, si convertivano alla democrazia. Quanto era fuori tempo la pretesa di essere successori dell’Impero tedesco, una DDR che non doveva esistere, una frontiera che arrivava alla Memel, quanto era meschina la lingua, ottusa la musica, gli Heimatfilme, i film ad ambientazione regionale, l’unico genere originale dell’epoca, Rudolf Prack e Sonja Ziemann che con il cane da caccia, al quale era stata mozzata la coda, scomparivano dal quadro inoltrandosi nella brughiera” 3. La radicalità e a volte l’estremismo della componente antiautoritaria nel panorama complessivo del ’68 tedesco rimarrebbero incomprensibili senza la conoscenza di tale background culturale e generazionale.
Personalmente ho vissuto quegli anni a Francoforte, studiando presso l’Istituto per la Ricerca Sociale (in Italia più noto come “Scuola di Francoforte”), militando nelle file dell’SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund), protagonista principale delle proteste e delle attività politiche extraparlamentari di quegli anni. L’SDS, nato nel dopoguerra come organizzazione giovanile dell’SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), presto diventa espressione delle forze più radicali, tanto che all’inizio degli anni ’60 il partito stabilisce l’incompatibilità tra l’essere membro del partito e membro dell’SDS. Uno dei punti cardine delle controversie era rappresentato dal tipo di atteggiamento da tenere verso le autorità della Germania comunista, e in particolare verso il partito comunista KPD (Komunistische Partei Deutschlands), al potere in DDR col nome SED e clandestino nella Repubblica Federale. La politica dell’SDS è sempre stata quella di un formale divieto di appartenenza al partito comunista, ma di una sostanziale politica di dialogo e di relazioni con singoli individui e parti delle istituzioni della DDR, soprattutto per quanto riguarda la lotta contro i residui nazisti nella società tedesca del dopoguerra. Significativo a tal proposito è l’episodio della mostra “Ungesühnte Nazijustiz” (1959), organizzata dall’SDS e rifiutata, interdetta dalle autorità federali, non perché esponesse documenti falsi, ma perché si serviva di fotocopie di documenti provenienti dalla DDR (esistenti anche negli archivi della Germania Federale, ma segretati). Il regime di Adenauer, col pretesto che si trattasse di simpatie illecite per il regime comunista, bloccava molte iniziative volte a far luce sulle connivenze delle istituzioni attuali e del suo governo con numerosi ex-nazisti tutt’ora in posizioni centrali nell’amministrazione dello stato, nei tribunali, nell’esercito, la scuola, l’università ecc. La battaglia dell’SDS contro tali connivenze antidemocratiche fu radicale e durissima, tanto da portare al già menzionato divieto da parte del partito della membership contemporanea nel partito socialdemocratico e nell’SDS, con conseguente sospensione di finanziamenti ecc.
In sintesi si può dire che l’SDS, attraverso tutti gli anni ’50 e ’60 (e ben prima dell’esplosione di massa del movimento del ’68), fu il maggiore protagonista di una tessitura di proteste e di resistenza contro le tendenze antidemocratiche rappresentate dal governo Adenauer e progressivamente fatte sue dal partito socialdemocratico di opposizione, l’SPD: lotta contro il riarmo atomico (’58); contro la “svolta di Bad Godesberg” del partito socialdemocratico; contro la demonizzazione dei rapporti con l’altra Germania; contro i nazisti ancora e di nuovo in posizioni di potere e di prestigio; contro la proposta, nel 1960, di una modifica in senso restrittivo della Costituzione (i “Notstandsgesetze”); contro nuove tendenze antisemite nella società; contro la riforma universitaria che prevedeva il numero chiuso; contro la prospettiva di una Grande Coalizione tra CDU/CSU e SPD. E contro tutte le tendenze coloniali e neocoloniali dell’Occidente, vedi la guerra in Algeria, la guerra del Vietnam, la visita dello scià di Persia in Germania, i rapporti con il regime dei colonnelli in Grecia, l’uccisione di Lumumba e le conseguenze per i rapporti di potere in Africa, la lotta all’apartheid in Sud Africa. E contro il monopolio della stampa di Springer, manipolativa, anticomunista e razzista. L’attentato contro Rudi Dutschke a Berlino (delle conseguenze del quale questo leader della rivolta morì una diecina di anni dopo) era direttamente riconducibile ad una odiosa campagna di stampa della “Bildzeitung” contro di lui, e le manifestazioni che ne seguirono furono tra quelle più violente di quegli anni.
Francoforte e Berlino, per la mia esperienza, erano i luoghi centrali della protesta, ma il movimento si sviluppava ugualmente in tutte le altre università e via via anche nelle scuole superiori. Durante tutti gli anni ’60 si può osservare una costante crescita di partecipazione al movimento: da gruppi minoritari di studenti, sindacalisti e simpatizzanti vari – prevalentemente impegnati nel dibattito pubblico e nello studio dei testi classici del marxismo in chiave critica, ma anche in azioni di protesta volte a contrastare le tendenze autoritarie della società tedesca, da una parte, e a lottare per azioni di solidarietà con i movimenti anticoloniali e antitotalitari sul piano internazionale, dall’altra – la seconda metà degli anni ’60 vede uno sviluppo di massa con nuove forme di protesta. Gli stimoli per sviluppare campagne di mobilitazione non tradizionali arrivarono innanzitutto dalle lotte studentesche e per i diritti civili negli Stati Uniti, come i sit-in, le assemblee permanenti, le occupazioni e le manifestazioni aggressive davanti a edifici di forte valenza simbolica, come teatri, consolati, ambasciate, basi militari ecc. La mia esperienza personale è legata innanzitutto alla lotta contro il razzismo – un nostro modo di elaborare il fanatismo antisemita dei nostri genitori – sia attraverso svariate attività con gli immigrati italiani e greci, allora la maggioranza dei “Gastarbeiter” nella Repubblica Federale, sia attraverso rapporti di solidarietà e lavoro clandestino con i vari movimenti di resistenza anticoloniale e anti-apartheid che erano presenti nella Repubblica Federale. Nella seconda metà degli anni ’60, nel contesto della lotta contro la guerra nel Vietnam, inoltre, eravamo in rapporto con i principali leader delle Pantere nere che venivano clandestinamente a Francoforte per incitare i soldati afroamericani delle basi in Germania a disertare. Il congresso sul Vietnam “La liberazione della coscienza e della conoscenza” a Francoforte nel 1966, con la partecipazione di Herbert Marcuse, segna una tappa in tal senso, l’anticamera per le grosse manifestazioni successive a Berlino.
All’interno dell’SDS esisteva un gruppo di lavoro anticoloniale del quale fui per un certo periodo responsabile. Nasce in questi anni il mio interesse per l’opera di Frantz Fanon, alla quale ho dedicato un lungo lavoro, prima di ricerca in Algeria, poi di tesi e di pubblicazione di un libro 4. Rileggendo oggi – a distanza di quasi quarant’anni – questo testo, mi sembra di poter enucleare tre ambiti, o temi presenti nell’opera di Fanon, che per me rappresentano, allora come ora, l’importanza eccezionale del suo pensiero, e che allora, nei nostri gruppi di discussione politica e di studio, furono di importanza centrale. Si tratta della sua analisi del razzismo, del suo approccio alla politica e del suo modo di intendere i nessi tra individuo, società ed esperienza, ovvero tra psiche, relazioni interpersonali e relazioni sociali e politiche. Per Fanon un processo politico di liberazione non era tale se non si compiva contemporaneamente anche come emancipazione soggettiva. “La liberazione dell’individuo non avviene dopo la liberazione nazionale. Una liberazione nazionale autentica si realizza solo nella misura in cui l’individuo ha iniziato un irreversibile processo di liberazione. E’ impossibile opporre un rifiuto al colonialismo senza rifiutare al tempo stesso l’idea che il colonizzato si è fatto di sé attraverso il filtro della cultura colonialista” 5. Il tanto dibattuto concetto fanoniano di umanesimo – oltre a quello dell’alienazione – ben sintetizza tutto ciò.
La questione del razzismo è centrale, a mio avviso, per comprendere l’intera opera di Fanon. La sua esperienza di negro in un mondo segnato dal dominio bianco appare la leva che ha via via sempre di più acuito la sua sensibilità per i meccanismi del potere e del dominio. La sofferenza vissuta sulla propria pelle gli è servita da lente di ingrandimento per le dimensioni collettive e sistematiche del contesto coloniale. Nella sua analisi il razzismo non è un fenomeno sovrastrutturale, bensì un collante basilare per garantire la coesione della società coloniale, società fondata su rapporti brutali di dominio e di violenza. Il manicheismo della situazione coloniale, spesso evocato, impedisce la creazione di relazioni sociali di scambio tra le parti antagoniste. L’ideologia e la prassi del razzismo forniscono una struttura ferrea che configura un sistema. Ed è la forza di tali elementi strutturali, economici, sociali e politici informati al razzismo, che lascia la sua impronta sulle menti. L’alienazione prodotta dal misconoscimento ha un carattere di necessità, non è pensabile rimanerne incontaminati.
Non per ultimo, sono tali analisi che suggeriscono un’idea di politica legata strettamente ai mutamenti del rapporto dell’individuo con il contesto socio-politico, oltre che con i legami di potere nazionali e internazionali. Fare politica, per Fanon, significa innanzitutto, modificare il quotidiano in modo sempre più consapevole, diventare protagonisti della propria storia. Le analisi in L’An V de la révolution algérienne mettono in scena questo tipo di sensibilità. In tal senso cultura e politica vengono a coincidere.
Inoltre vorrei mettere in rilievo l’importanza della dimensione psicologica e psicoanalitica nell’intelligenza politica, nella passione e nell’impegno di Fanon. Adorno ha scritto: “Ogni pensare è esagerazione, nella misura in cui il pensiero che è tale si proietta oltre il suo riscontro nei fatti dati” 6. La sensibilità di Fanon per le ferite, per la sofferenza estrema che si esprime nel disagio psichico gli suggerisce di indagare sui nessi profondi fra la violenza sociale e la reazione soggettiva a tale violenza. In tal senso credo che si possa dire che “l’esagerazione” che si esprime nel sintomo può essere letta come un elemento di verità sia rispetto alla persona sofferente, sia rispetto al contesto. Fanon è un innovatore della psichiatria – in Italia, ad esempio, Franco Basaglia era molto interessato ai suoi lavori in campo psichiatrico – ma non ha nessuna predilezione per l’antipsichiatria. Non assegna alcun valore rivoluzionario all’esistenza della follia. L’alienazione del paziente psichiatrico, nel contesto coloniale, ingrandisce ed esaspera l’alienazione che condiziona tutti.
Credo che ciò che allora, da studentessa, mi aveva così tanto attratto negli scritti di Fanon era infatti la centralità dell’alienazione nella sua duplice veste, come allontanamento da se stessi attraverso le violenti imposizioni del dominio coloniale, da una parte, e, dall’altra, come grido, come espressione estrema della sofferenza e dell’insofferenza per le condizioni date che si rifugia nel disagio psichico. In tal senso gli scritti di Fanon mi parevano assolutamente compatibili con ciò che imparavo dai miei maestri della scuola di Francoforte, vale a dire la necessità di far interagire il sapere sulla società con il sapere sulla psiche degli individui, pena la non comprensione del presente, particolarmente quando i conflitti sono segnati da violenze apparentemente incomprensibili. Questo Adorno e Horkheimer avevano scoperto e sviluppato negli anni della nascita del nazismo in Germania, questa sembrava la via da percorrere negli anni ’60, anni di grande effervescenza collettiva. Tuttavia, come si sarebbe capito non molto dopo, anche anni già gravidi di nuove sciagure sul piano internazionale. A tal proposito l’acuta analisi di Fanon dei pericoli insiti all’interno degli stessi paesi in via di liberazione e, innanzitutto, la sua messa in guardia di fronte allo sviluppo delle varie borghesie nazionali, appaiono oggi più che mai preveggenti. L’Algeria stessa ne fornisce un triste esempio.
Ma vorrei ancora tornare agli anni del ’68. Complessivamente mi sembra di poter dire che il “mio” Sessantotto si era sviluppato in modo crescente e via via più articolato attraverso tutti gli anni ’60 mediante molteplici canali, molteplici iniziative e molteplici componenti politici che in un modo o nell’altro – visto a posteriori – miravano tutti ad una sorta di “seconda fondazione” della Repubblica Federale Tedesca, un paese veramente democratico, non più segnato dalle deformazioni antidemocratiche legate alla non-elaborazione del recente passato nazista e alla soffocante polarizzazione Est/Ovest della Guerra Fredda, non più succube di vecchie forme di educazione e di relazioni intergenerazionali e interpersonali autoritarie, non più ammuffito e parafascista sul piano della cultura e dell’arte. Un paese libero sul serio, sia sul piano politico, istituzionale e giurisdizionale, sia sul piano relazionale. Rispetto a quest’ultimo aspetto va ricordata ancora la forte componente antiautoritaria delle nostre battaglie, legata alla dimensione individuale dell’esperienza. Non dimentichiamo che all’inizio degli anni sessanta la morale sessuale era alquanto repressiva, contraccezione e aborto erano illegali e tabù, l’omosessualità era vietata per legge e perseguita come durante il nazismo. Contro tutto ciò il movimento inventava nuovi tipi di convivenza come le Comuni, proclamava “l’amore libero”, l’educazione sessuale antiautoritaria, gli asili antiautoritari per l’infanzia, i “Kinderläden”, e molto altro ancora. In un certo senso la successiva parola d’ordine del femminismo, “il personale è politico”, permeava già quelle battaglie, spesso ricondotte alle esperienze della “liberazione sessuale” praticata come prassi politica da certe frange del Partito comunista negli anni prenazisti della Repubblica di Weimar. Wilhelm Reich, ad esempio, era materia di studio nei circoli dell’SDS, al pari di Marx e di altri teorici del marxismo.
Gli anni sessanta, e in particolar modo le seconda metà, sono quindi attraversati da tendenze multidimensionali di protesta: una crescente sinistra extraparlamentare ampia; gruppi minoritari del Partito comunista clandestino; circoli anarchici e situazionisti con il movimento delle comuni che prende piede a partire dalla fondazione, nel 1967, della “Comune 1” di Berlino; gruppi a sostegno delle lotte di liberazione nel “Terzo Mondo”; una sinistra sindacale molto attiva, in particolare dei metalmeccanici; e vari tentativi di fondazione di un nuovo partito di sinistra sul modello del PSU in Francia e del PSIUP in Italia. Lelio Basso, in quegli anni, venne frequentemente a Francoforte per discutere a tale proposito con i leader dell’SDS. L’apice di tali mobilitazioni si raggiunge nel ’68 – ’69, quando la scintilla unisce i movimenti sul piano nazionale con quelli internazionali. Ricordo nitidamente la grande emozione collettiva quando, nel maggio ’68, durante il comizio conclusivo di una marcia di protesta di molti km, e di una manifestazione di massa a Bad Godesberg contro le leggi eccezionali (Notstandsgesetze) preparate dal parlamento, un rappresentante dell’SDS prende improvvisamente il microfono gridando: “Compagni, stanotte a Parigi….”. In questo momento la lotta contro le tendenze repressive sul piano interno, la lotta contro la guerra del Vietnam sul piano internazionale, le mobilitazioni contro il razzismo e a favore delle Pantere Nere, la campagna contro la stampa Springer ecc, ecc… tutto ciò diventa un tutt’uno. Siamo contro.
Tuttavia, lavorando e lottando contro queste tendenze restrittive, antidemocratiche, abbiamo concretamente cercato di costruire relazioni private e pubbliche di tipo nuovo:
– nel contesto relazionale, famigliare, parentale;
– nel rapporto con individui, continenti, paesi e culture diverse dalla nostra;
– nella solidarietà con rifugiati politici di sistemi repressivi o totalitari, come algerini,
francesi pro-algerini, africani, americani neri e bianchi, greci…
– nella solidarietà con gli immigrati “Gastarbeiter”, allora soprattutto italiani e greci.
Visto a partire da oggi direi anche che il movimento, e in modo particolare l’esperienze dell’SDS, abbia avuto un grande respiro storico. Innanzitutto nella lotta accanita per la de-nazificazione della società tedesca del dopoguerra e nel lavoro del lutto al fine di elaborare il passato e nello sforzo del “non-dimenticare”. Ma anche nella consapevolezza che un tale lavoro dovesse partire dal recupero delle tendenze liberatorie presenti già nella (purtroppo debole) democrazia della Repubblica di Weimar. Solo oggi, forse, comprendo appieno il perché dei nostri gruppi di studio sulla rivoluzione fallita del 1919, su Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, sul movimento “Spartakus”, sugli errori politici del Partito socialdemocratico, sulle esperienze antiautoritarie, sulla nascita e lo sviluppo della psicoanalisi, sulla letteratura e l’arte “degenerata”. Per anni scoprivamo, leggevamo e studiavamo dichiaratamente tutti i libri, gli autori, gli artisti che i falò nazisti avevano pubblicamente bruciato. Noi, da quell’esperienza fallita di democrazia siamo partiti per progettare “altro”, attraverso la memoria, attraverso il lutto per coloro che non c’erano più a sostenerci: un attraversamento teorico e sentimentale del totalitarismo nazista.
A tratti tutto ciò era una festa, una scoperta mozzafiato, una grande “promessa di felicità”, una inimmaginabile trasgressione – spesso però, anche, un grande dolore.
Per concludere due parole soltanto sugli sviluppi degli anni ’70 (che personalmente non ho più vissuto in Germania). Credo di poter individuare quattro filoni significativi che presto si dividono, anche se si tessono nuovi contatti politici fra alcuni di loro:
– iniziative dal basso, a partire dalla società civile (le “Bürgeriniziative”); azioni concrete dei cittadini, la politica dei “Verdi”;
– attività nel campo dell’educazione, asili antiautoritari, forme nuove di convivenza, psicoanalisi, sessualità, multiculturalità;
– il femminismo, prendere la parola, l’autocoscienza, realizzare alcune delle promesse (non mantenute) del ’68: non la “liberazione sessuale”, ma la liberazione dall’oppressione sessuale patriarcale;
– il terrorismo, gli attentati mortali, la RAF.
Per me, per molti versi il ’68 è stato un duro lavoro, la scoperta di un mondo e di altri mondi possibili e di me stessa in tali contesti. Ma anche una grande festa, insieme drammatica e felice e, non per ultimo, il contatto con l’altro, con lo straniero. Gli anni del ’68 per compagni e amici della mia generazione hanno sicuramente rappresentato l’antitesi alla muffa totalitaria, al pantano sanguinario e angoscioso del nazismo.
Sto male e mi arrabbio quando sento che oggi va di moda identificare il Sessantotto col terrorismo. E’ innegabile che molti dei militanti confluiti nella RAF (Rote Armee Fraktion) provenivano dal nostro grande movimento di massa del ’68; alcuni dei leader, come ad esempio la stessa Ulrike Meinhof, erano stati vicini all’SDS alla fine degli anni ’50 (ma già allora erano stati espulsi dall’organizzazione: ricordo a tal proposito la presa di distanza ufficiale dell’SDS, nel 1959, dalla rivista berlinese “Konkret” della quale la stessa Meinhof era redattrice). Tali militanti, a mio avviso e per la mia esperienza, avevano innanzitutto due caratteristiche: da un lato, almeno alcune e alcuni, erano animati da un rifiuto e odio per il passato nazista dei padri senza soluzioni elaborabili in modo costruttivo, erano perciò distruttivi e autodistruttivi fino alla ricerca della morte, propria e altrui (anche se il famigerato “suicidio collettivo” nella prigione di Stammheim è tutt’ora materia di discussione e contestazione); dall’altro lato, mi sembra che la scelta “militare” sia stata quella facilmente più consona a persone particolarmente inclini ad un’attitudine di ragionare in modo ideologico, affermativo, senza spazi fecondi per il dubbio e una distanza critica anche dai propri convincimenti. Voler confondere, a posteriori, tali posizioni e azioni con il grande movimento del ’68 <=”” i=””> è segno di malafede o di ignoranza. Si tratta davvero di una grave, pericolosa e interessata mistificazione.
Note
1 Cit. in Detlev Claussen, Theodor W. Adorno. Ein letztes Genie, S. Fischer, Frankfurt am Main, 2003, p. 242.
2 Uwe Timm, L’amico e lo straniero, Mondadori, Milano, 2007, p. 91.
3 Ivi, p. 90. Per una mia riflessione autobiografica vedi Renate Siebert, Don’t forget – Fragments of a Negative Tradition in “International Yearbook of Oral History”, Volume I, Memory and Totalitarianism, Oxford University Press, Oxford, 1992, e Renate Siebert, Una generazione di orfani, in Donatella Barazzetti e Carmen Leccardi (a cura di), Responsabilità e memoria, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997.
4 Renate Zahar (Siebert), Kolonialismus und Entfremdung – zur politischen Theorie Frantz Fanons, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt/Main, 1969. (Successive traduzioni: Il pensiero di Frantz Fanon e la teoria dei rapporti tra colonialismo e alienazione, Feltrinelli, Milano, 1970. L’oeuvre de Frantz Fanon, Maspero, Paris, 1970. Colonialismo y enajenacion, Siglo Veintiuno Editores, Mexico, Argentina, Espana, 1970. Frantz Fanon: Colonialism and Alienation, Monthly Review Press, New York and London 1974).
5 Frantz Fanon, Scritti politici. Per la rivoluzione africana, volume I, Deriveapprodi, Roma, 2007, p. 112.
6 Theodor W. Adorno, Meinung, Wahn, Gesellschaft, in Id., Eingriffe, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1966, p. 152.
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