La satrapia dell’impero
Dopo giorni di incontri, ufficiali e informali, di confronti, di discussioni, di relazioni, di argomentazioni e di riassunti a chi non c’era, credo sia il caso di mettere nero su bianco alcune mie considerazioni circa il “Pride” di quest’anno, circa la partnership dell’ambasciata USA e le questioni che ne sono scaturite.
Tutto ciò anche per tentare di analizzare quanto accaduto, provando a fornire una lettura politica un po’ più ampia, che quantomeno tenti di sottrarsi alle troppo asfittiche, e spesso provinciali, prospettive che hanno in questi giorni fatto da contorno alla questione.
Sono consapevole di come tale mia riflessione sia, per l’appunto, individuale e personale (sebbene nasca dal confronto con altri e nonostante esprima un sentire che so essere comune a molti). Negli ultimi giorni, si è assistito a chi non ha perso occasione di pronunciarsi come rapito dalle sacre muse della rappresentanza essenzialistica e identitaria, per cui con estrema facilità ci si è ritrovati ad assistere a prese di posizioni individuali ma rivendicate in nome di intere categorie collettive. Al contrario non pretendo che queste parole vadano al di là di quello che sono. Non pretendo di parlare né a nome delle realtà politiche collettive di cui faccio parte, né tanto meno a nome di intere comunità o categorie sociali delle quali mi guardo bene di spacciarmi per alfiere, portavoce o condottiero. Tuttalpiù posso augurarmi di dare un piccolo contributo ad una riflessione che, visti i temi in questione, non potrebbe non richiedere più voci e variegate e sincere partecipazioni
Vorrei poter contribuire nel fissare alcuni snodi che ritengo importanti, cercando di sfatare il rischio di ulteriori e spiacevoli fraintendimenti, tentando così di stimolare una riflessione su una dinamica che ritengo di enorme rilievo. Una dinamica che stiamo vivendo, dentro cui abitiamo e che contribuisce a dare forma ai nostri giorni politici, alle dinamiche di potere e di senso del nostro tempo
La questione
La presenza dell’ambasciata statunitense al Pride di quest’anno ha innescato tutta una serie di ripercussioni, di discussioni, di prese di posizioni, che hanno un po’ animato il clima politico palermitano (a dire il vero abbastanza stantio) in vista del Pride 2013. Le mie riflessioni riguarderanno pertanto la presenza dell’ambasciata USA, il tenore delle argomentazioni e degli atteggiamenti con cui alcuni organizzatori del Pride hanno affrontato la questione e, più in generale, proveranno a fornire una lettura politica un po’ più ampia della questione.
La contraddizione più immediata, che a moltissimi è subito saltata agli occhi, relativamente alla presenza USA al Pride palermitano (nazionale) di quest’anno, è stata quella territorialmente, umanamente e dunque anche politicamente, più immediata e cogente: come è possibile accettare una tale partnership, in una terra che sta vivendo, con l’istallazione delle antenne MUOS, l’alienazione della sua sovranità ai fini di un bellicismo imperialista che già dispone prepotentemente di ampie fette di territorio siciliano? Ecco dunque che, nonostante circolasse già da parecchie settimane la notizia della presenza dello Zio Sam tra i partner del Pride e nonostante questa notizia non avesse fatto sorgere tra gli organizzatori alcun evidente e tangibile imbarazzo o comunque alcuna esigenza di affrontare l’argomento, sia partita proprio dal movimento NO MUOS l’iniziativa di un incontro per discutere la questione.
Durante tale incontro sono emersi molti dei punti su cui ora discuterò. Punti che credo chiariscano molto bene la natura di alcune posizioni politiche interne al Pride, sulle quali ritengo si debba riflettere, se si vuole adottare quella visione ampia, quel campo lungo, in grado di mettere a fuoco non solo il particolare immediato, ma anche lo sfondo in cui è collocato, garantendoci così una profondità di campo che credo sia auspicabile.
Inizialmente alcuni degli organizzatori del Pride intervenuti all’incontro hanno tentato di minimizzare il valore politico della presenza USA al Pride. Si sosteneva, infatti, che la presenza dell’ambasciata sarebbe stata circoscritta al finanziamento di una mostra fotografica. Tentare di far credere, come si è provato a fare, che uno dei principali attori politici planetari (il governo USA), decida di intervenire e di esporsi palesemente rivendicando la propria presenza in un’iniziativa del genere, solo perché spinto non da ragioni politiche, ma da mecenatismo, credo sia stato un maldestro tentativo che si commenta da solo.
In una terra come quella siciliana, trasformata sempre più in testa di ponte militare delle strategie genocide e imperiali dell’amministrazione USA, una tale argomentazione oltre che grottesca diventa anche ben altro.
Lo stesso tentativo di portare su un terreno non politico, ma di mecenatismo artistico, la presenza degli USA al Pride, veniva contraddittoriamente associato al discorso di Hillary Clinton sui diritti LGBTQI, risalente al 2011 (come si possa sostenere una valenza non politica dell’agire di un governo, se per di più si cita un intervento all’ONU di un suo ex ministro, resta un mistero….).
Proprio le modalità con cui alcuni degli organizzatori del Pride, durante l’incontro, hanno fatto più volte riferimento alla Clinton, credo denotino una significativa – e dal mio punto di vista gravissima – complessiva supinità rispetto alla politica estera USA. Definire infatti la Clinton come colei che si è dichiarata a difesa dei diritti LGBTQI, tanto da vedere in ciò la legittimazione della partnership dell’ambasciata, costituisce un cedimento grossolano alle retoriche ed alle narrazioni mainstream; retoriche propinateci dalle veline dell’impero (ché si sa l’informazione non è credibile solo quando parla di Berlusconi) ma evidentemente fatte proprie da molti. Non vedere nulla di politico in tutto ciò ma pensare che si tratti di filantropia idealistica e di “sensibilità” alla causa, come alcuni organizzatori avevano provato a sostenere (anche volendo dare per scontata la buona fede) continua a proiettare un’ombra sinistra sulla capacità di alcuni di capire di cosa si stia parlando.
La signora Clinton, di cui all’incontro si tessevano le lodi, è una vera e propria criminale di guerra: corresponsabile e complice della morte di milioni di persone (provate a fare la stima dei morti iracheni, anche quelli dovuti all’embargo genocida, di quelli del macello afghano, della Libia ed della Siria, per non parlare del suo maritino e del suo attacco alla Serbia). Un soggetto, la sanguinaria in tailleur e caschetto dorato, attivo corresponsabile della politica di finanziamento e supporto a gruppi estremisti islamici funzionali alle più diverse esigenze dell’impero USA.
Vorrei puntualizzare che qui non si tratta di una questione di moralismo, categoria che detesto dal profondo. Qui la questione è politica. Di certo non stiamo parlando di mecenatismo. Proviamo allora a vedere in che trama di significazione politica, di produzione di senso e di consenso, si colloca una dichiarazione come quella fatta dalla criminale di guerra Clinton nel 2011. A partire dall’amministrazione Obama, specie dai tumulti in Tunisia ed Egitto, nel 2011, il governo USA è impegnato in una strategia di egemonizzazione della declinazione del concetto di diritto umano. Non a caso la dichiarazione della Clinton risale proprio al 2011 (http://www.huffingtonpost.com/2011/12/29/hillary-clinton-gay-rights-speech-music_n_1174623.html, http://www.theatlanticwire.com/global/2011/12/watch-hillary-clintons-speech-declaring-gay-rights-are-human-rights/45842/) anno dell’inizio delle rivoluzioni passive gestite proprio dagli USA in Egitto e Tunisia (tramite anche la generosa elargizione di finanziamenti a Fratelli Musulmani e ad altri gruppi analoghi), della criminale destabilizzazione, con guerra made in ONU, della Libia e dell’inizio di un’analoga (e fino ad ora fortunatamente infruttuosa) strategia ai danni della Siria.
Non sarà stato certo casuale, allora, che Suzanne Nossel sia stata nominata subito dopo, nel gennaio 2012 direttore esecutivo di Amnesty International Usa. La signorina Nossel era proprio reduce dall’impiego presso il Dipartimento di Stato (cioè il Ministero degli Esteri del governo USA) guidato proprio da Hillary Clinton. Prima di ricoprire cariche politiche, nel mondo aziendale, Nossel era una dirigente nel conglomerato mediatico Bertelsmann, una consulente su media e intrattenimento alla McKinsey & Company (una delle otto multinazionali con qualità di socio “sovventore” del Council on Foreign Relations) e vice-presidente della strategia e delle operazioni per il «Wall Street Journal». Da questo breve curriculum emerge un profilo non certo “non governativo”. Suzanne Nossel sostiene l’egemonia statunitense nel mondo e i canoni economici relativi al neo-liberismo. Stiamo parlando infatti di colei che ha coniato il concetto di Smart Power (http://www.foreignaffairs.com/articles/59716/suzanne-nossel/smart-power). Di fatto la Nossel considera la difesa dei diritti umani come un mezzo per affermare l’egemonia americana. Un mezzo che, già in questo articolo del lontano 2004, è visto come legato alla coloniale ed etnocentrica affermazione egemonica degli “American values” quale strumento di politica estera. La Nossel è inoltre famosa per essere un’acerrima nemica della causa palestinese. Nel 2011, in occasione di una seduta del Congresso statunitense, ha affermato che il Consiglio per i diritti umani della Nazioni Unite “remains far from the institution that it needs to be, particularly with regard to its biased treatment of Israel. By joining the Council and becoming its most prominent, most assertive voice, we are beginning to influence the direction and conduct of this body… Palestinians and others seek to use UN forums to put pressure on and isolate Israel. This is simply unacceptable and the Administration has been clear on this point. At every turn, we have rejected efforts to single out Israel and have taken steps to bolster its status in Geneva” (http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=3&ved=0CEAQFjAC&url=http%3A%2F%2Ftlhrc.house.gov%2Fdocs%2Ftranscripts%2F2011_10_25_Human%2520Rights%2520Council%2F25oct11_hearing_Suzanne%2520Nossel%2520-%2520Oral%2520Testimony.pdf&ei=3Ca6UdbEIend4QS8wYHYBQ&usg=AFQjCNFQRGC0CIxT-a_fkXUnTjjMXWZTYQ&bvm=bv.47883778,d.bGE&cad=rja).
[Sulla Nossel si veda il seguente articolo: http://www.sinistra.ch/?p=2058].
Da quanto detto dovrebbe essere chiaro che si è ben lungi dall’essere di fronte ad una sincera e generosa missione per salvare i LGBTQI del mondo intero; le esternazioni della Clinton (la presenza dell’ambasciata nel caso palermitano non sarebbe che una concreta applicazione di quel paradigma) non possono dunque essere disgiunte, come si è maldestramente tentato di fare, dalla politica estera USA. Una politica estera che ha ormai pienamente sussunto, come dimostra il caso Nossel, le cosiddette ONG quali attori e cinghie di trasmissione di una tale strategia imperiale (http://www.monde-diplomatique.it/ricerca/ric_view_lemonde.php3?page=/LeMonde-archivio/Giugno-2005/0605lm21.01.html&word=ong;globalizzazione).
L’intervento della Clinton, al di là del superficiale pathos retorico, si colloca dunque come strategia discorsiva all’interno di una politica di potenza genocida e guerresca ma al contempo finemente egemonica (la definizione di smart power è, da questo punto di vista, quanto mai azzeccata); una politica etnocentrica e subdolamente coloniale perché si basa sulla generalizzazione culturale del modello americano. Si afferma cioè performativamente, grazie a pratiche, discorsi, induzione di immaginari, comportamenti collettivi, (debitamente supportati, vedi proprio il caso del pride) il consenso intorno l’assunto che l’unica società civile in grado di ammettere un riconoscimento ai non eterosessuali, sia quella liberista, egemonizzata dagli USA, consumistica, capitalistica ed “occidentale”.
Siamo cioè di fronte ad una strategia egemonica estremamente sottile, rivolta alle concrete realizzazioni del concetto di diritto umano. Concetto estremamente complesso, seppur abusato, su cui non intendo né fare lezioni né dilungarmi. Ma quel che si può dire è che una particolare accezione di tale categoria è stata discorsivamente associata ai peggiori e più sanguinari interventi armati imperialisti degli Usa degli ultimi anni: una categoria la cui sostanziale manifestazione, essendo monopolisticamente prerogativa dei think tank imperiali, si è performativamente articolata attraverso specifiche, pleonastiche e ricorrenti retoriche, narrazioni e concrete strategie di legittimazione delle pratiche del potere USA. A tal proposito si pensi a quella forzatura del diritto internazionale, vero e proprio golpe imperialista ai danni della comunità mondiale, rappresentata dalla responsability to protect (non a caso introdotta subito dopo l’11 settembre 2001), che proprio in virtù di una certa accezione coloniale del diritto umano arriva a fare carta straccia della sovranità degli stati, definendola non un diritto fondamentale bensì una responsabilità (http://www.resistenze.org/sito/os/dg/osdg9i27-005584.htm). Siamo cioè di fronte al fatto che, complici gli interessi e i rapporti di forza imperiali, un concetto di diritto ne cancelli un altro, di secolare e consolidato riconoscimento. Fu proprio con l’applicazione della dottrina della responsability to protect che la criminale risoluzione Onu di fatto legittimò l’aggressione e lo smembramento della Libia, proprio in quel tanto osannato, da alcuni, 2011. E c’era la Clinton a dirigere la baracca degli esteri USA. Casomai non fosse chiaro…..
Quel che è certo è che qualunque teorizzazione si voglia dare ai diritti umani, se non si riconosce, antimperialisticamente, l’autodeterminazione, l’autonomia e la sovranità delle società che tali diritti devono inverare e concretizzare, li si tramuta allora in teste di ponte all’uranio impoverito buone per smembrare le comunità che malauguratamente si frappongono ai piani di dominio planetario USA. Siamo cioè di fronte ad una riedizione, sotto rinnovate spoglie, della retorica sulla civilizzazione dei popoli che, artatamente contrapposta alla “barbarie”, giustificava il colonialismo di una volta. La bramosia di affermazione degli american values, come si è visto, inducendo un processo di mimesi dell’identico, di uniformizzazione culturale delle società civili sul modello USA, contribuisce a vedere tutto ciò che non è identico come deviazione, scarto, anomalia.
Se si vuole discutere di USA e della Clinton occorre allora tenere insieme tre aspetti: il particolare paradigma teorico-pratico del diritto umano statunitense, la specifica modalità USA di approcciare la questione LGBTQI e la comune funzionalità di entrambi tali aspetti alla politica estera americana. Non siamo di fronte a questioni differenti bensì interconnesse strutturalmente: si tratta della interna differenziazione di una strategia unitaria imperiale e di annichilimento genocida che, nel suo connotato più strettamente bellico, necessita della Sicilia, col Muos, Sigonella e i droni, come infrastrutture tecnologico-logistiche di guerra planetaria.
La sfida sarebbe dovuta essere, allora, quella di calarsi nello spazio di lotta egemonica per la definizione di spazi politici di senso e di prassi: non capitolare al disegno egemonico come la satrapia più distante dal centro dell’impero e proprio per questo più succube della sua influenza. Occorreva ed occorre quindi ribadire che esiste un terreno, uno spazio di pensabilità, di elaborazione e dunque di praticabilità, nel quale forme e contenuti dei diritti LGBTQI non sia quella propugnata e monopolizzata dalla strumentale politica imperiale USA. Questi signori si arrogano il diritto, con l’arroganza propria di chi sa di essere forte, di voler essere gli unici in grado di determinare le politiche culturali, le forme di relazione, gli immaginari del mondo intero. Occorreva invece puntare i piedi, strappare via, con le unghie e con i denti, quello spazio nel quale poter dire che il riconoscimento delle esistenze di chi non è eterosessuale non deve per forza passare dai loro cannoni, dai loro droni, dalle loro antenne, dalle loro bombe. Ci si sarebbe dovuti accorgere del cappio che si andava stringendo intorno al collo e si sarebbe dovuto dire: non siete voi i propugnatori e i difensori delle libertà.
I diritti dei non eterosessuali non assumono un contenuto esclusivamente grazie a questi signori, ma sono un campo di lotta aperto, nel quale le dirette soggettività devono costruire i propri percorsi, all’interno della società di cui fanno parte e senza che, attraverso eterodirezioni neo-coloniali, sia la potenza egemone a dover dettare l’agenda né tanto meno produrre categorizzazioni. I diritti sono terreno di lotta, perennemente in movimento, un terreno dinamico, sul quale se ci si distrae il nemico ti strappa via spazio prezioso; un terreno pertanto dal quale il nemico va tenuto lontano, a tutti i costi. Soprattutto non è ammissibile che tali diritti diventino, nella forma mainstream del loro venire concretamente espressi, un anello della catena imperiale alla caviglia del pianeta. Ma tenere lontano un nemico non è facile, specie se, per incapacità o malafede, non lo si riconosce come tale.
Per quanto mi riguarda il governo USA è un nemico. Il governo USA è responsabile di una strategia, storica e tuttora agente, di genocidio sociale, sistematica e senza freni. Le future prospettive di guerra contro il blocco asiatico potrebbero annichilire lo stesso equilibrio naturale e di certo quello sociale. E credetemi non è una questione esclusivamente ideologica, come molti hanno potuto e potrebbero pensare (l’appestante clima acriticamente post-ideologico, dunque fautore dell’ideologia dominante, lo rigetto con veemenza). Non è solo una questione di solidarietà con i popoli oppressi e dissanguati da questi criminali, che sarebbe in ogni caso ben più che sufficiente. Non è nemmeno una certa solidarietà da salotto radical, tanto cara all’ignoranza colta di questa città, che tanto io sto bello comodo a casa mia e faccio l’internazionalista sulle spalle di chi viene raso al suolo all’uranio impoverito.
Qui siamo tutti sulla stessa barca. Siamo in guerra anche noi (anche se in forme diverse, beninteso, almeno per adesso). Il governo USA è il mio nemico: la mia generazione patisce ogni giorno, come il paese intero, le conseguenze delle politiche economiche decisa dagli USA a partire dagli anni settanta del ventesimo secolo. Il capitalismo neoliberista uccide ogni giorno il nostro futuro e il nostro presente, blindandosi dietro all’apparato bellico dei loro esportatori a stelle e strisce. L’annichilimento di scuola, università, sanità, la deindustrializzazione del paese, la stessa strategia di terzomondizzazione cui siamo esposti, la speculazione finanziara, hanno negli Usa la principale cabina di regia. La sorte della Libia e dell’Iraq, della Palestina e della Siria, sono le mie sorti. Le strategie di guerra che vedono la Sicilia, col Muos, come l’asservita e ridicola servetta alla catena del padrone, sono l’articolazione bellica ed imperiale di quella stessa progettualità che vuole ridurre il mio paese in un cimitero di diritti sociali. Io sono in guerra perché da precario, se vorrò avere la speranza di curarmi in caso di malattia o di poter avere una pensione, un lavoro, o una famiglia, devo e dovrò combattere lo stesso nemico che bombarda la Serbia, la Libia, che prova a sbranare la Siria, che ha dissanguato l’Iraq; e devo augurarmi che chi combatte in quei paesi, in condizioni ben peggiori delle nostre, possa vincere anche lui la nostra guerra.
Ecco che non differenziare un percorso politico, quale quello del Pride, da quello delle strategie egemoniche USA, renderlo addirittura funzionale a queste ultime, rappresenta per me un limite invalicabile: costituisce una complicità effettiva con quelle dinamiche imperiali e criminali. Se si può dire che non essere felici è segno di complicità, come recita la frase che rimbalza insistentemente dai manifesti del Pride, allora ben peggiore complicità è quella di ostinarsi a non voler distinguere il proprio percorso da quello di un nemico.
L’arroganza imperiale USA è tale che, come si è tentato di dire durante l’incontro con gli organizzatori, la stessa politica di Washinton finanzia quella fumosa galassia integralista (vedi il caso libico, quello siriano, i Fratelli Musulmani, l’UCK, etc.) che di certo non ha nella lotta all’omofobia quella che potremmo definire una priorità.
Invece di denunciare tali conseguenze della politica estera Usa, relative proprio alla questione dei diritti LGBTQI, sancendo così l’inconciliabilità della partnership, nonché l’incoerenza delle stesse dichiarazioni della Clinton, molti organizzatori del Pride insistevano ripetutamente su una non meglio chiarita complessiva omofobia dei paesi “arabi”. Il tutto, ovviamente, con la piccola omissione del legame tra estremismo islamico e amministrazione USA, che invece venivano più volte additati, binariamente e manicheisticamente, come il fulgido paradiso dei diritti omosessuali. La supina accettazione di una tale ottica etnocentrica e coloniale è forse una delle cose più tristi cui mi è capitato di assistere. È forse quella che più lascia intendere come è stato possibile arrivare a questo: quando ci si riferiva agli USA, gli organizzatori erano sempre pronti a tirare in ballo la “complessità della società americana”, le “sue mille contraddizioni”, la “differenza tra la politica estera e quella interna” etc. etc. Per quanto concerne invece questa creazione della fantasia imperiale, i paesi definiti “arabi”, (senza interrogarsi, nonostante i tanti intellettuali e professoroni, sull’assurdità neocoloniale di un tale generico appellativo) questi sarebbero tutti, nel loro complesso, “omofobi”. Così, tutt’intero, un paese, una società, senza tenere conto della loro complessità e delle loro contraddizioni, sarebbero omofobi, tout-court. Siamo all’essenzialismo. I paesi “arabi” sarebbero omofobi, in quanto tali. Noi invece, sotto l’egida della sanguinariua Hillary siamo i buoni. Mancava solo lo squillo di tromba e la carica della cavalleria….
Si è assistito, durante quell’incontro, al definitivo venir meno della pregiudiziale fondamentale di qualunque approccio antimperialista, cioè il riconoscimento, specie ad una società sotto pressione esterna, dell’autonoma capacità di fare la propria storia, di gestire da se medesima le proprie contraddizioni. Per cui se critichi gli USA sei ideologico, magari antiamericano (!?) o peggio ancora passi per omofobo; in compenso però nella più totale noncuranza delle dinamiche di senso e delle elaborazioni del potere entro cui noi tutti ci muoviamo, c’è chi si permette di definire “omofobi” tutti i paesi arabi.
Personalmente ritengo che quanto accaduto sulla questione del Pride sia solo l’ennesima dolorosa conseguenza di un ben più macroscopico processo di degenerazione “atlantica” di tutta un’area politica italiana. Lo stesso processo che ha portato alla sussunzione, da parte degli interessi USA e del grande capitale, di tutto un settore della politica nazionale. Che non a caso colleziona una grottesca capitolazione dietro l’altra o, peggio, la trasformistica transgeneticizzazione sotto l’ala protettiva delle banche, del capitale finanziario e degli F-35. Quello stesso processo che ha reso quasi solipsistico e comunque avvilente, qualunque tentativo di ricomposizione di classe e di emersione politica del conflitto capitale-lavoro.
E qui si tocca un punto ulteriore della questione. Oltre la macroscopica (ma non per tutti, evidentemente) presenza a stelle e strisce, anche altri partner dell’organizzazione del Pride, quali la Lega Coop o Confindustria, indurrebbero ad alcune riflessioni circa il tipo di lotta, di mobilitazione e di finalità, maggioritarie in un evento come il Pride e come la galassia di pratiche a questo connesse ( e ribadisco maggioritarie perché, a differenza di altri, so bene che non si può generalizzare e che i soggetti politici con i loro percorsi, quando sono veri, hanno tante anime e non vivono di essenze monolitiche).
Personalmente credo che la declinazione dei diritti LGBTQI quali diritti esclusivamente civili, sia la dinamica maggioritaria al momento e segni oltre che una certa difficoltà ad uscire dal corporativismo, anche un certo rifiuto, da parte di alcune anime del Pride, a voler legare le rivendicazioni LGBTQI ad altre istanze sociali, ad altre lotte, ad altri bisogni. Poco importa se lo stesso militante e organizzatore del Pride sia poi impegnato in altri percorsi. Qui sto parlando di valenza e di contenuto politici di un determinato percorso. Il tipo di sponsorizzazioni del Pride, per non parlare delle argomentazioni con le quali alcune di queste sono state difese, sono segnali di contenuti politici pregressi. Non sono cause di divisioni, sono le conseguenze di un certo modo di riprodurre forme e contenuti politici. La distanza esistente tra il semplice diritto civile e la lotta tra capitale e lavoro, dunque la distanza con i diritti sociali sotto attacco, fanno sì che Confindustria possa starci, insieme con la Lega Coop. Il Pride si colloca così in una trasversalità generalista che, da un lato garantisce la natura mediatica e commerciale dell’evento; dall’altro gli conferisce, a livello politico profondo, una natura corporativa che rende più difficile che, soggetti i cui bisogni sociali antagonisti sono sotto attacco, possano identificarsi con quel percorso.
La distanza tra il concetto di diritto civile individuale garantito e militarizzato dall’impero e il diritto all’autodeterminazione delle società, il venir meno della sensibilità antimperialista in quei settori sociali che, da privilegiati, non vivono l’esigenza di tematizzare il conflitto capitale-lavoro, fanno sì che la presenza dell’ambasciata USA non venga vissuta come un problema politico e che anzi le frasi di Obama trovino spazio, sul sito ufficiale, tra gli slogan del Pride.
A venir meno è l’esigenza stessa dell’unione dei bisogni sociali antagonisti in chiave di rottura dell’egemonia cui siamo dialetticamente e costantemente sottoposti.
Quanto detto circa il corporativismo è stato confermato dal tenore di alcune considerazioni degli organizzatori del Pride. È stato infatti ribadito varie volte che trattandosi di un evento in ultima istanza espressione della comunità LGBTQI, chiunque non aderisse e non si allineasse alle posizioni del Pride, non avrebbe per ciò stesso a cuore i diritti di tale comunità, nonché le rivendicazioni del progetto Pride. Un tale atteggiamento è inammissibile e neanche tanto velatamente ricattatorio. Stupisce vedere un tale rigido essenzialismo, esercitato ancora una volta da alcuni organizzatori. Per fortuna chiunque non sia animato da vuote polemiche o dall’esigenza di non far fallire il grande evento con le sue TV, le star dello spettacolo e gli sponsor, sa benissimo che criticare o non aderire ad un evento politico e ad un percorso significa valutare i loro contenuti e le loro pratiche. Non significa invece emettere una sentenza di assoluzione o di condanna per le soggettività collettive (in questo caso i soggetti LGBTQI) che non possono venire appiattite identificandole con un percorso specifico. Con buona pace di chi è convinto di rappresentare tutti i LGBTQI d’Italia, o magari del mondo intero.
Concludo con un’ultima valutazione.
Anticipando quanti vorranno polemizzare con queste riflessioni, so già che a Pride concluso si dirà che si è trattato di un grande successo, al di là delle più rosee aspettative; si dirà che chi ha criticato, chi ha polemizzato ha avuto nella partecipazione della città e della sua gente la migliore risposta possibile. Che il bisogno di essere presenti è stato più forte di ogni possibile divisione. Vi prego di essere più originali. Quanto ho scritto prova ad andare un po’ più in profondità.
In questi tempi di terzomondizzazione del sud Europa le famiglie rappresentano l’unica forma di welfare residuale, di stato sociale sempre più in contrazione e sotto attacco. Sono cioè un obiettivo delle strategie egemoniche del capitale e dell’imperialismo. Se si vuole rivendicare il diritto alla famiglia anche per chi non è eterosessuale, in un momento in cui anche le famiglie “tradizionali” sono sotto attacco frontale, o ci si lega ai bisogni sociali antagonisti e ci si dispone lungo un percorso in cui si sa di stare chiedendo uno stop alle politiche dominanti, o si diventa funzionali a che un certo tipo di riconoscimento valga solo per i limitati aderenti alla élite benestante del post-fordismo finanziario.
(Fabrizio Fasulo)
Dopo la lunga prolusione in cui hai più volte fatto riferimento ad una “visione ampia”, di lungo respiro ho letto e riletto le tue riflessioni ma di ampio non ho trovato nulla. Se non in senso geografico e geo-politico. Ma sinceramente non credevo fosse quella l’ampiezza promessa. La tua riflessione riesce, però, in un compito difficilissimo e straordinario: quello di tentare di contestualizzare il tema dei Diritti Lgbt senza mai parlare dei Diritti Lgbt. Leggendoti è facilissimo comprendere il contesto storico e politico, gli strumenti della tua analisi (per altro assai pregevole sotto molti punti di vista), il quadro dei diritti di cittadinanza e dei diritti sociali dentro cui ascrivere (a tuo parere) la questione lgbt… ma senza che tu entri MAI nel merito della questione stessa. Anzi, l’unica volta in cui ciò accade (temo, come si suol dire, per “voce dal sen fuggita”) lo fai nel peggiore dei modi: mostrando la tua reale visione del tema con quella terribile definizione “i non eterosessuali”. Io non sono un non-eterosessuale allo stesso modo in cui tu non sei un non-omosessuale. Con una piccolissima differenza tra me e te (che non è solo semantica ma, purtroppo, è soprattutto culturale e politica): io non mi sognerei mai neppure di coniare la definizione di non-omosessuale. Perchè questa definizione tradirebbe la tentazione di considerare me stesso ed il mio orientamento sessuale come “centrale”, come chiave di lettura non solo della mia posizione nella realtà ma anche della posizione di chiunque altro/a. Puoi condire la tua riflessione con tutte le possibili lezioni sul terzomondismo, sull’anti-imperialismo, sull’antagonismo, sul conflitto di classe e sulla origine “sociale” dei Diritti, ma quelle 3 semplici parole (“i non eterosessuali”) ti inchiodano alla tua reale chiave di lettura e denunciano la reale distanza tra te e la piattaforma politica del Pride. Tu, semplicemente, credi nell’esistenza di un soggetto normativo (nel tuo caso, l’eterosessuale tanto quanto i soggetti costituenti le classi schiacciate dalle strategie egemoniche del capitale) e non ti accorgi neppure della contraddizione in termini. Anzi, mi spiace dirlo, mostri di non possedere neppure il concetto della contraddizione. Nè gli strumenti culturali e politici per definirla. Perchè la valenza culturale e normativa che tu attribuisci (non so quanto consapevolmente) alla tua eterosessualità è straordinariamente e paradossalmente identica alla valenza normativa e coercitiva che tu sai attribuire al capitale ed all’imperialismo. Anzi, se me lo consenti, il processo analitico che tu segui è addirittura più violento: perchè il capitalismo e l’imperialismo forniscono al mondo non solo gli strumenti della loro stessa egemonia ma anche gli strumenti culturali della loro stessa critica. Tu invece hai una visione dell’orientamento sessuale talmente povera ed al contempo talmente granitica da non considerarlo neppure uno strumento di analisi utile a ridefinire i concetti di classe, di conflitto e di egemonia. L’orientamento sessuale per te è semplicemente un dato acquisito, non discutibile, non contestualizzabile, ergo non degno di essere strumento atto a permeare il conflitto. Gli omosessuali per te sono non-eterosessuali, cioè coloro che divergono da una norma. Una norma che non è una parzialità (come invece il pensiero femminista ed i queer studies sostengono) ma un assoluto che definisce tutto il resto, sia per appartenenza che per negazione. Il che, tradotto in soldoni, significa che tu pretendi di discutere di Diritti Lgbt e di contestualizzare le tematiche Lgbt dentro un più complessivo discorso politico sui Diritti (tentativo ovviamente encomiabile ed assolutamente condivisibile) senza però possedere gli strumenti per comprendere le questioni Lgbt e per riconoscere la valenza sociale di questi temi. Secondo il tuo punto di vista, che è poi tipico di tutti coloro che pretendono di combattere il conflitto di classe NON ridefinendo le classi ma semplicemente cambiando l’ordine dei soggetti egemonici, i Diritti Lgbt meritano rispetto ed analisi solo a patto di considerarli “secondari” rispetto ai diritti sociali. Tu consideri i temi Lgbt “rivoluzionari” non in quanto tali ma solo se aderenti ad una articolata lettura della società nella quale il capitale finanziario è l’unico strumento che può definire i concetti di povertà e di ricchezza. La contrapposizione con l’anti-imperialismo, così come tutta la pippa ridicola e vagamente negazionista per la quale le parole della Clinton non esistono “in quanto tali” ma vanno interpretate (pena l’accusa di superficialità e di connivenza col post-fordismo finanziario) solo e necessariamente attraverso l’analisi dei suoi atti da Ministra, attraverso i nomi dei collaboratori che si è scelta, attraverso l’adesione ad una modalità di analisi “complottista” che ha la stessa profondità e lucidità delle teorie sugli Illuminati. L’analisi di cui tu sei portatore è pericolosissima ed assolutamente “altra” rispetto ai Diritti delle persone Lgbt (e, credimi, non certamente perchè non aderisci al Pride!) per un motivo evidentissimo: essa è fondata su un manicheismo para-fascista in base al quale o i Diritti Lgbt accettano la loro natura “secondaria” di cassettino che nell’armadio dei Diritti sta qualche livello più giù dei cosiddetti Diritti Sociali, oppure diventano addirittura subdolo strumento dell’egemonia imperialista. Complici delle strategie del capitale perchè, come a te appare ovvio, se i temi Lgbt pretendono di veder riconosciuta la loro natura sovra-strutturale, essi diventano capriccio da èlites benestanti. Tu non sei in grado di vedere che la realtà sta nell’esatto contrario: la negazione dei Diritti (di qualunque diritto!) è uno degli strumenti con cui il capitalismo post-fordista costruisce la propria egemonia, creando sacche di povertà non soltanto “economica” ma addirittura “di cittadinanza”. E del resto come potresti farti carico di una simile analisi se per te le persone omosessuali sono semplicemente dei non-eterosessuali? Da questa tua incapacità di ridefinire, secondo parametri più moderni e più adatti alle attuali strategie del Capitale, i concetti di classe e di soggetti schiacciati dal conflitto, si salva solo la riflessione circa la povertà di analisi del Movimento Lgbt rispetto al concetto di Famiglia. Ma si salva solo parzialmente, poichè tu ti ostini ad applicare anche in questo caso la chiave di lettura “sociale” (evidentemente non ti accorgi di quanto contigua al pensiero della destra più sfacciatamente capitalista sia la tua concezione di famiglia NON come unione di individui ma come “nucleo sociale”); e questa chiave di lettura ti impedisce di vedere che la reale debolezza dell’impianto politico del Movimento Lgbt italiano sta nella sua adesione acritica ad un modello familista ancora oggi patriarcale, etero-normato e quindi maschilista. Che poi sono, a ben leggerti e con qualche chiave di lettura in più che purtroppo può possedere solo chi accompagna alla propria analisi del conflitto di classe gli strumenti acquisiti dal pensiero femminista e dai queer studies, lo stesso familismo e lo stesso maschilismo etero-normativo e patriarcale di cui trasuda ogni singola parola della tua strepitosamente incoerente analisi. Complimenti in ogni caso per lo sforzo di andare in profondità: sappi però che andare in profondità significa saper andare SOTTO la superficie… mentre a me sembra che tu abbia spaziato non sotto ma di lato… allargando a dismisura la superficie ma senza sforzarti di guardare sotto la polvere.
Parafrasando quanto ha già detto Luciano riesci ad eludere sistematicamente gli snodi che ho provato a sviluppare, offendendo e attaccandomi personalmente. Non cadrò comunque nel vicolo cieco di impelagarmi in un botta e risposta serrato sui punti che poni che, come altri hanno già notato, ignorano totalmente le questioni relative all’ambasciata USA.
Se ritieni di volerti appigliare a quella espressione e su quella provare a fare leva in quella maniera provocatoria per buttare il banco della discussione all’aria fai pure, ma è un tentativo che si commenta da sé. L’espressione, tra l’altro, ricorre laddove faccio riferimento alla situazione di fatto per cui le nostre società riconoscono diritti solo allo “status”, in quel caso sì eteronormato, dell’eterosessuale quale statica ed acquisita condizione data, unica in grado di poter ammettere riconoscimenti e diritti. Hai dunque, per evidente mala fede, voluto vedere quello che non c’era, l’esatto contrario del valore del mio discorso: il tuo obbiettivo era disconfermarmi così da poter deviare rispetto all’asse argomentativo da me proposto.
L’espressione “per chi non è eterosessuale” non implica affatto, dunque, quella concezione ontologica e normativa, per cui l’eterosessualità sarebbe il canone centrale o per cui, come sostieni, “L’orientamento sessuale [sarebbe] semplicemente un dato acquisito, non discutibile, non contestualizzabile, ergo non degno di essere strumento atto a permeare il conflitto”. A meno che tu, è ovvio, non abbia bisogno di trovare un appiglio per poter dispiegare l’anatema di maschilismo-omofobia e per poter sparare a zero sul soggetto tralasciando i contenuti del messaggio. Un approccio pretesco e inquisitorio, ma si sa, la storia sa essere beffarda. Ritengo che l’orientamento sessuale non sia affatto una natura, un dato acquisito pre-culturale e deterministicamente connotato. Solo perché animato da mala fede, hai potuto vedere in quell’espressione tutto quello che hai scritto; come del resto con mala fede e con arroganza hai gestito l’incontro “chiarificatore” svoltosi giorni fa….
Non intendo dovermi giustificare con te riguardo la mia formazione culturale o delle mie competenze. Non solo perché il tuo atteggiamento volgare e pretestuoso non va raccolto ma anche perché mi seccherebbe doverti spiegare come ancora tu non riesca a gestire la differente valenza di copula e di predicato, propria del verbo essere. Non essere eterosessuale non vuol dire, come invece tu dedurresti, essere “non-eterosessuale”, ponendo così l’eterosessualità come centro e valore ontologico sul quale tutto il resto si misurerebbe come deviazione….. Ma ripeto qui si dovrebbe partire dai greci e non credo di sentirmela.
Il mio antifascismo è fortunatamente così solido che non ha bisogno di venire confermato da te, per cui la tua accusa mi rimbalza addosso; para-fascista forse sarai tu, con il tuo identitarismo reazionario ed essenzialista che regge il moccolo ai criminali di guerra, portatori di una strategia reazionaria di massa. Al contrario del tuo conato di offese, nel mio scritto provavo a dire che il conflitto è proprio il campo aperto delle costruzioni in nome del quale, se si avesse avuto la volontà, si sarebbe potuto dire ai sanguinari a stelle e strisce: andatevene, non abbiamo bisogno delle vostre strumentalizzazioni……
Come già Luciano notava, non ho affatto considerato secondari i diritti LGBTQ anche perché in quel caso non avrebbe avuto senso tutto ‘sto discutere. Se li ritenessi secondari, come vorresti attribuirmi, non si spiegherebbe perché riterrei grave quanto accaduto. Fosse davvero come tu dici, non dovrei preoccuparmi e dovrei deterministicamente confidare nella sussunzione, da parte del “primario” conflitto di classe, di tutto ciò che gli sarebbe “inferiore” e “secondario”. Ma ovviamente fai di tutto per stigmatizzare quello che non c’è. In ogni caso insisto nel dire che il tuo provare a non raccogliere le questioni da me sollevate, il tuo cercare di buttarla in cagnara, ricorrendo all’invettiva, non elimina minimamente quelle contraddizioni…. Le stesse che moltissimi, al di là dell’esprimersi pubblicamente, stanno in questi giorni discutendo, facendo proprie, inchiodandovi così alle vostre responsabilità. Le stesse contraddizioni, del resto, la cui consapevolezza vi ha fatto assumere quest’atteggiamento di boriosa e insofferente ostilità.
Il discorso è che se anche il tuo delirio sul mio conto fosse quello che sostieni che sia, le questioni da me sollevate rimarrebbero comunque, proprio perché non riesci minimamente ad intaccarle.
Vuoi fare il professorino piccato? Fai pure. Ritieni che non conosca il concetto di contraddizione? Accomodati. Per fortuna non devo renderne conto a te. In ogni caso hai comunque legittimato una presenza criminale e genocida che si fa scudo della questione LGBTQ per la propria strategia imperiale ed egemonica . E questo rimane. Così come rimane il fatto, consolante, che moltissimi del popolo del Pride non condividono quello che l’organizzazione-dirigenza ha fatto quest’anno e che tu così bene esemplifichi. Per cui ti inviterei alla cautela nel tralasciare con così scontata sufficienza la complessità del rapporto tra soggettività collettive e le minoranze dirigenti dei loro percorsi rivendicativi.
Chiudo con questo “promemoria”. Torniamo a parlare di dinamiche di potere vere, di fatti con la loro testa dura. Così capiamo chi vi ha dato i soldini e la partnership ed evitiamo tutti di sentirci il sale della terra parlandoci addosso…..
http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/2013/06/muos-le-carte-segrete-io-faccio-ponzio.html
Caro Fabrizio, scusa, ho il piacere di intervenire in questo dibattito ma non ho il tempo per fermarmi a ragionare molto. Spero non me ne vorrai se mi limito ad allegarti una “lettera aperta” che uso altrove.
Un caro saluto a te e agli amici di radio aut che ospitano questi interventi.
Lettera aperta a un amico no muos.
Caro amico, vorrei condividere con te alcune riflessioni sulla polemica scatenatasi in seguito alla decisione degli organizzatori del Pride Lgbtq di accettare il patrocinio dell’ambasciata statunitense e sulla tua scelta di non aderire, nei fatti, a quella manifestazione.
Amo vivere in un paese in cui le coppie hanno il diritto di divorziare e le donne hanno il diritto, se lo credono, di abortire. Si tratta di acquisizioni importantissime, frutto di dure battaglie che hanno visto in prima fila, tra gli altri, i radicali, massima espressione del filo-americanismo italiano. Hanno forse sbagliato allora i partiti di ispirazione marxista a collaborare con gli ultras dell’atlantismo nostrano? È stato un errore appoggiare una legge sul divorzio frutto dell’iniziativa legislativa del socialista Loris Fortuna (che tra l’altro, se non ricordo male, per un periodo ebbe anche la tessera radicale), e dell’industriale Antonio Baslini, deputato del superatlantista Pli – quello stesso Pli che si trovava al governo quando l’Italia aveva aderito al Patto atlantico? Bisognava forse evitare di difendere quella legge dal referendum abrogativo lottando fianco a fianco con molti laici e “liberal” italiani, mentre il paese da loro tanto amato, gli Usa, era ancora impegnato nella guerra del Vietnam? Hanno sbagliato poco dopo le sinistre, anche quelle extraparlamentari, che hanno fatto fronte comune con il superfiloamericano Marco Pannella nella battaglia per una legislazione che rendesse lecito l’aborto? Secondo il tuo ragionamento sì; secondo me, invece, da quella stagione il paese è uscito svecchiato ed enormemente progredito.
Non amo la politica estera americana; a dire il vero, non mi piace neanche il modello di società di cui, specie da Reagan in poi, si sono fatti portatori. Credo però che il mondo sia complesso, che dividerlo con la spada cercando di separare i buoni dai cattivi sia un’operazione non proficua per il semplice motivo che bene e male coesistono nelle stesse realtà. Credo tu abbia ragione quando ricordi che gli Usa hanno sostenuto regimi che spesso hanno discriminato (perseguitato?) i cittadini Lgbtq. Mi pare tu colga nel segno anche quando denunci la tendenza a parlare di un non meglio precisato mondo arabo che sarebbe omofobo per definizione, atteggiamento intellettuale che mi sembra tradire una buona dose di orientalismo. Aggiungerei che quest’atteggiamento ha spesso rappresentato la base per un ulteriore passaggio: dato che l’Occidente (concetto ondivago e bizzarro come pochi altri) rispetta di più le donne e gli Lgbtq, i paesi occidentali avrebbero il diritto di esportare questo modello a suon di bombe. Si tratta di un ragionamento che non condivido, pur avendone presente la complessità. Ho partecipato a diverse manifestazioni contro la guerra in Afganistan e contro quella in Iraq perché credevo che avrebbero avuto insopportabili costi in termini di vite umane. Non mi sono mai nascosto, però, che avrei preferito mille volte trasferirmi nella più neoliberista delle città americane piuttosto che nella Kabul talebana o nella Bagdad di Saddam Hussein. Non perché io creda in una innata superiorità degli “occidentali”, e peraltro, non capisco in cosa sarebbe meno “occidentale” di me quell’omicida che ha scannato un soldato britannico a coltellate in pubblica piazza e che, come noto, è nato e cresciuto a Londra; men che meno credo che vi sia un nesso tra l’islam e le teorie liberticide (ché altrimenti dovrei interrogarmi sul perché la cattolica Italia si è inventata il fascismo, la protestante Germania il nazismo e la ortodossa Russia il comunismo sovietico). Ritengo semplicemente che in alcune zone del mondo si siano sviluppati dei processi storici che hanno reso possibile l’acquisizione di diritti civili e politici che io considero inalienabili e senza i quali, sarò eurocentrico, non saprei vivere.
Mi pare quindi che la condanna della politica estera americana non mi debba far perdere di vista il fatto che in molti stati degli Usa i cittadini Lgbtq hanno acquisito diritti importanti come quello al matrimonio o all’adozione di figli. Sono, certamente condividerai, aspetti importantissimi, essenziali per la vita delle persone, per il loro appagamento, per la loro felicità. Si tratta di cose che io, banalissimo eterosessuale, dò per scontate ma che i miei amici Lgbtq in Italia possono solo sognare. Dunque, perché non posso manifestare contro il Muos e contestualmente apprezzare le apertura di Obama sui diritti delle coppie Lgbtq?
Cosa avrei dovuto fare se abitassi in Francia? Lì Hollande ha garantito un passaggio legislativo epocale per questo tema. Si tratta, però, dello stesso Hollande che impone il fiscal compact e si fa interprete di una politica economica che io stento a condividere. Se fossi stato francese mi sarei dovuto rifiutare di scendere in piazza a favore della legge sui matrimoni gay perché proposta da Hollande? Perdona la franchezza, ma mi sembra che rischiamo di ragionare come Javert, il poliziotto dei Miserabili che voleva interpretare la realtà secondo la linearità della retta mentre, ci spiegherebbe Hugo, la realtà è fatta di curve, segmenti, traiettorie spurie. A te sarebbe piaciuto un Pride senza il patrocinio dell’ambasciata Usa. A me piace il Pride col patrocinio dell’ambasciata Usa e con la bandiera dei no Muos che sventola sul tetto di uno stand e viene esposta sul palco da nella serata più affollata.
E poi, cosa ci aspettavamo per questo giugno palermitano: un Pride Lgbtq o una manifestazione a favore dei diritti Lgbtq fatta solo per gente che la pensa come noi su tutte le questioni politiche? Non pochi esponenti della sinistra locale hanno stigmatizzato la presenza, all’apertura della manifestazione, della Presidente della Camera Laura Boldrini e del Ministro Josefa Idem, evidentemente considerate troppo moderate. A me è dispiaciuto che non ci fossero anche esponenti del Pdl. Se fossero venuti e avessero detto cose che condividevo li avrei applauditi. E questo non mi avrebbe tolto il diritto di protestare ferocemente, anche un minuto dopo, contro le scelte politiche, specie di politica economica, del governo italiano (per la cronaca, non ho votato alcun partito che sostenga l’attuale esecutivo). Perché, vedi, esistono anche cittadini Lgbtq filo-americani, di destra, liberisti, simpatizzanti di Berlusconi, imprenditori iscritti a Confindustria, cattolici. Mi interessano anche i loro diritti e il Pride deve parlare anche a loro. Su Facebook in molti hanno bollato questi Lgbtq come frutto di contraddizioni. A me pare che non ci sia nessuna incoerenza: a mio giudizio, questioni rilevanti come quelle dei diritti civili vanno risolte con le compensazioni, non con gli sbarramenti.
Torno al punto da cui sono partito. La legge sul divorzio è stata approvata nel parlamento italiano anche grazie al voto di molti parlamentari cattolici ed ha resistito all’assalto del referendum perché la maggioranza degli elettori italiani, cattolica in grandissima parte, ha bocciato l’ipotesi abrogativa. La strada per il progresso sociale e civile passa anche da queste “contraddizioni”, che poi sono tali solo in apparenza.
Insisto su questo punto per un altro motivo. Nel 1974, in pieno shock petrolifero, con la stagflazione che avvolgeva l’Italia, i partiti di sinistra si impegnarono in una battaglia sui diritti civili. È un monito da far presente a chi in questi giorni si è prodigato a spiegarci sui social network che in un periodo di così grave crisi economica non ci si dovrebbe occupare dei diritti Lgbtq. Ho letto su Facebook alcuni post di gente di sinistra che si domandava come mai, davanti ai numerosissimi lavoratori che si tolgono la vita per il dissesto finanziario, la sinistra perda tempo a occuparsi di omosessuali e trans. Avrei voluto rispondere loro che si suicidano anche tantissimi giovani, a volte giovanissimi, schiacciati dal peso di un’omosessualità che li porta a subire atroci violenze psicologiche, emotive, non di rado fisiche.
Un’ultima notazione proprio su Facebook. Anzi, più che una notazione si tratta di uno sfogo. Nelle tue lettere e nei tuoi comunicati usi toni molto duri. Da persona per bene quale sei, tuttavia, mantieni un alto grado di civiltà. Ti segnalo, però, che sui profili di persone pienamente addentro alla sinistra palermitana, sono apparsi in questi giorni dei post che mi hanno dato da pensare. Beninteso, credo che su quel social network ognuno di noi dia il peggio di sé. Io stesso, a volte, ho scritto cose di cui poi mi sono pentito. Preferisco non fare nomi, dunque, non per una malcelata omertà, ma perché non credo che le persone debbano rispondere per quello che viene pubblicato sul loro profilo Fb. Ho visto, tuttavia, post su profili “aperti” sui quali mi vorrei brevemente soffermare. Sono tutti scritti da persone che criticano, da sinistra, la scelta del Pride di accettare il patrocinio dell’ambasciata Usa. In uno dei più soft ci si domanda per quale motivo i gay non facciano le loro battaglie attraverso le associazioni classiche come i sindacati, i partiti, ecc. (come a dire, puoi fare sì vita associativa, ma attraverso le categorie che io considero normali – con buona pace delle donne che negli anni sessanta e settanta militavano in gruppi femministi); in un altro leggo che gli Lgbtq sarebbero delle “anomalie” (cito testualmente) – tralascio per pietà di riportati gli argomenti usati; infine, vorrei riferirmi a un altro post (che mi pare sia stato successivamente rimosso): lo ha scritto una persona il cui profilo Fb reca nello sfondo foto di Che Guevara e vi si legge che, parafraso abbastanza fedelmente, i politici oggi sono tutti assoggettati ai gay come domani lo saranno ai pedofili [sic].
So che tu non condividi nessuna di queste asserzioni. Probabilmente non le condividono neanche le persone sui cui profili quei post sono apparsi. Mi auguro che persino gli autori non ne siano convinti sino in fondo. Credo sia però necessaria una maggiore attenzione da parte di tutti noi: è opportuno vigilare su ciò che scriviamo e diciamo poiché questo dibattito, pur ricco e importante, ha tirato a galla una schiuma che non credevo potesse appartenere al mondo politico in cui mi riconosco. Se tu critichi il patrocinio dell’ambasciata americana non sei omofobo. Le persone che, partendo dal tuo stesso argomento, arrivano a scrivere quelle cose forse sì. Per la prima volta nella mia vita ho intravisto lampi di una sinistra che non mi sembra né fascista né stalinista (non credo che le cose si ripetano), ma semplicemente antidemocratica; mi pare sia interesse di tutti ridurre quei lampi a fiochi barlumi.
Un caro saluto e spero di vederti, con tante bandiere del movimento No Muos, alla manifestazione del Pride prevista per sabato pomeriggio.
Caro Matteo,
rispondo alla tua lettera aperta. Apprezzo i toni, pacati ed educati. Doni rari che molti hanno dimostrato di non possedere né tanto meno di tentare di conquistare.
Non ho ben capito, però, se questo tuo intervento è una diretta risposta al mio scritto o meno. Da molti riferimenti sembrerebbe di sì, a meno che tu non li utilizzi per riferirti ad una più ampia e difficilmente definibile “area”.
Qui riposa il primo punto che vorrei sottolineare. Se l'”amico” destinatario delle tue argomentazioni sono io, con le riflessioni che ho deciso di rendere disponibili, allora trovo fuori luogo che tu possa collegarmi a certe esternazioni omofobe e prive di ogni fondamento. Se è vero che affermi di non dubitare che io possa minimamente condividerle (e non dubito circa la veridicità di questa tua convinzione) è pur vero che, retoricamente (nel senso della funzionalità argomentativa) quelle deliranti posizioni cui fai cenno assumono un peso non da poco nella tua nota; cosa ben più grave, dallo sviluppo del testo e dall’effetto che induce in chi legge, tali posizioni ne escono come in qualche modo connesse a quanto io ho sostenuto. Non basta dire che tu non creda che io le pensi, se hanno appena svolto un ruolo retorico ed emotivo molto forte, venendo quasi proposte come le involontarie conseguenze, latenti nelle mie affermazioni. In tutta la “malloppa” che ho malauguratamente deciso di scrivere, nulla può giustificare un tale accostamento. Delle due l’una: o certe posizioni sono coglibili nel mio scritto, allora non potresti sostenere che in fondo io non le condivida e potresti conseguentemente citare passaggi ed estratti di quanto ho scritto. O invece le due cose non sono in relazione e hai ragione nel dire che non mi appartengono, ma in tal caso non capisco il senso dell’avergli dedicato un ampio spazio nella tua risposta, proprio prima della chiosa.
Sarebbe un po’ come se un anti-abortista ci dicesse: “Difendere l’aborto significa dare la stura alla sussunzione bio-politica degli embrioni, alle sperimentazioni genetiche, all’economia che manipola la vita. Però so che voi, anche se abortisti, certe cose non le pensate e non vorreste che si facessero”.
Se rispondo non è semplicemente per puntualizzare le divergenze politiche tra me e te, perché per fare questo non serve scrivere note, manco fossimo espressioni di chissà cosa: basterebbe vederci, prendere un caffè o magari, molto meglio, ritrovarsi in percorsi politici dove, prassicamente, queste divergenze si possano tradurre in altrettanto differenti vie e proposte. Se rispondo è perché da quanto tu scrivi emerge un sostanziale fraintendimento di quanto ho scritto e di quanto sostengo. Tu ad esempio deriveresti dal mio ragionamento una sorta di deduzione inversa rispetto alla linea del tempo. Prendendo ad esempio la campagna sulla libertà di aborto, dedurresti che secondo me quello (esempio controfattuale, perché vincente) sarebbe stato un errore. Intanto non vedo alcun nesso tra un’alleanza interna ad un architrave partitico nazionale, come quello dell’esempio da te citato e la situazione qui in esame, in cui si discute della presenza di un’ambasciata straniera, per di più coinvolta nella negazione sistematica di diritti in giro per il globo. Che le forze politiche di un paese sviluppino percorsi comuni su determinati temi, oltre che normale prassi politica e istituzionale, non ha nulla a che vedere con la presenza di un’ambasciata straniera all’interno di un percorso specifico o, peggio, in una più generale campagna politica. Tranne ovviamente se si considera un regime politico coloniale, ma non credo volessi spingerti a tanto…Oltre a quanto ho appena fatto notare credo sia anche da sottolineare come ti sfugga il fatto che già adesso, il fronte delle rivendicazioni LGBTIQ goda di una variegata e ampia partecipazione interna alla galassia politica e civile italiana: dai centri sociali a ciò che rimane del comunismo, dalle ONG serve dell’impero all’associazionismo diffuso, dal personalismo post-prima repubblica dell’orlandismo all’ARCI e alle fette di liberalismo, dai timidi ed ancora avanguardistici settori cattolici (per lo più non ufficiali o limitati a singole personalità) ai valdesi, da Confindustria e Legacoop (che stringono il paese in una morsa di precariato e speculazione), alle istituzioni più tradizionali come la Regione, dall’associazionismo costola del sistema clientelare alla fantomatica società civile (!?), dai pezzi del PD ad esponenti del PDL fino a SEL ed al suo filosionismo. Diciamo che c’è veramente di tutto. Sfido qualcuno a non sentirsi rappresentato almeno un po’. Parafrasando un grande film, manca solo il partito nazista dell’Illinois…
Per cui non posso accettare che, secondo te, dal mio ragionamento si dovrebbe derivare che le sinistre avrebbero commesso un errore nel fare proprie rivendicazioni quali l’aborto o il divorzio.
Una frase come quella in cui tu dici :”E poi, cosa ci aspettavamo per questo giugno palermitano: un Pride Lgbtq o una manifestazione a favore dei diritti Lgbtq fatta solo per gente che la pensa come noi su tutte le questioni politiche?” dimostra che non hai afferrato per niente il senso di quello che ho detto.
Davvero hai potuto credere che si trattasse di una questione relativa all’opinione? Alle convinzioni? Pensi davvero che abbia un senso così infimo della politica? O sia davvero così infantile, vuotamente massimalista? Pensi davvero che l’istanza antimperialista di cui ho voluto farmi interprete si riduca ad una grottesca nostalgia di chi vive ancora aggrappato alla difesa dell’URSS? Davvero poteva sembrare da quello che ho scritto che il problema fosse quello che pensa la gente, quasi fosse una specie di parodia censoria e lamentosa della presa totalitaria sulle coscienze delle masse? Io ho, sottoscrivendo e condividendo la lotta e le rivendicazioni LGBTIQ, cercato di far notare come, in occasione del Pride palermitano, ci si fosse esposti e resi subalterni ad un orizzonte di discorso, e dunque anche ai connessi gangli di potere e di interessi, quale quello imperiale americano. Questo orizzonte tenta, ed ho provato a buttare giù alcuni esempi documentati, di declinare la questione dei diritti umani, sussumendola funzionalmente alle proprie strategie e pratiche di ingerenza, di guerra e di destabilizzazione. Come scrivevo, dunque, proprio perché rivendicazioni LGBTIQ e retorica USA non si identificano affatto in sé e per sé, si sarebbe dovuto dire: “no grazie, non abbiamo bisogno di voi”. Questo qualora si fosse voluto evitare di rendersi in qualche modo funzionali a quelle retoriche, di entrare a farne parte, come in un campo, con le sue linee di forza. Ecco perché continuo a rifiutare, per identiche ragioni, il tuo contestarmi di non voler estendere diritti a chi non la penserebbe come me («Perché, vedi, esistono anche cittadini Lgbtq filo-americani, di destra, liberisti, simpatizzanti di Berlusconi, imprenditori iscritti a Confindustria, cattolici. Mi interessano anche i loro diritti e il Pride deve parlare anche a loro»). Credo tu sia fuori strada: non nel senso che voglio contrapporre un mio punto di vista al tuo, ma nel senso che tu ne stai attribuendo uno a me, che non è minimamente contenuto in quello che io ho scritto. Evidentemente un diritto è tale per tutti quei soggetti che ne vengono riconosciuti come portatori. Ma io non devo assumere parole d’ordine filo atlantiche perché c’è qualcuno di quei potenziali soggetti portatori che è filoatlantico. Si arriverebbe all’annichilimento delle pratiche concrete, il voler parlare a tutti, come lo intendi tu, porterebbe all’afasia politica, al non poter dire nulla di aristotelica memoria; il tutto richiamerebbe dialetticamente il nulla.
Io devo portare avanti un percorso, il cui risultato sia chiaramente universale, valido per tutti; ma lo devo fare caratterizzandolo con le mie parole d’ordine e con le mie pratiche, con la mia visione del mondo. E non perché chi non le condivide non deve godere di quel diritto, al contrario: perché per conquistarselo dovrà confrontarsi con le mie concezioni e visioni del mondo e in quelle, se saranno all’altezza della storia, provare a vedere un’organicità con quanto sta cercando di ottenere. Qui si parla di pratiche, di lotta, di egemonia; non di concezioni ireniche e pseudo-liberali, magari in salsa decostruzionistica, buone solo per chi sa di essere già dominante.
Facendo un esempio concreto: posso portare avanti rivendicazioni LGBTIQ senza che sia Lo Bello a parlarmi delle discriminazioni sul lavoro ma parlando invece di precariato, della proliferazione delle tipologie contrattuali, di burocrazie sindacali concertative. Così facendo porto le mie parole d’ordine ad una lotta che varrà anche per il figlio omosessuale o trans dell’imprenditore che non ha ufficialmente neanche un lavoratore subordinato ma decine di contratti di consulenza, evidentemente parasubordinati e precari. E anche se la mini cooper l’ha comprata con i soldi che papà ha fatto a partire da quel plusvalore, dovrà confrontarsi con le mie parole d’ordine per poter vedere riconosciuta la sua forma di amore e di relazione affettiva. Non devo eclissarmi io per fare spazio agli altri. La mia visione del mondo se la deve giocare alla pari e non farsi da parte. Non sono le compensazioni a fare vincere né tanto meno gli sbarramenti: entrambi sono gli estremi di una visione non dialettica che non sa assumersi la sfida del proprio tempo. A far vincere è la consapevolezza di essere in lotta in un costantemente dinamico equilibrio di visioni del mondo, di discorsi, dunque di rappresentazioni e di potere concreto: in cui se mi sposto io qualcun’altro prenderà il mio posto, con tanti saluti per chi si è fatto da parte. Questa è la complessità di cui tanto si parla. Del resto le vicende della “sinistra” sinistrata (di cui fanno parte moltissimi di quelli che hanno tuonato contro l’ideologia anti-americana in questi giorni), testimoniano da sole, con i loro attori, dove porta il non vedere altro se non sbarramenti o compensazioni.
Lo stesso vale per l’imperialismo. Se ancora esistesse una diffusa coscienza antimperialista, in grado di legarsi agli interessi quotidiani, dunque non astrattamente e vuotamente sospesa a mezz’aria, si sarebbe potuto e dovuto dire: perché la lotta LGBTIQ dovrebbe essere accostata a, e resa strumento di, chi da decenni persegue una sistematica distruzione delle vite umane, prima ancora che dei diritti di cui quelle vite sono portatrici? Perché dovremmo essere accostati a chi crea, finanzia e manovra l’estremismo islamico a scopo destabilizzante? Perché dovremmo venire accomunati a chi pratica il pinkwashing?
Ma tutto ciò non è stato fatto, proprio perché questo paese è la satrapia più scassata e derelitta dell’impero: in quanto tale più parassitaria e dipendente dai rifornimenti del centro.
Io ho solo cercato di leggere una dinamica di potere e di significazione in cui tutti siamo immersi, ora, adesso, nella quale moltissimi si faranno male e a seguito della quale molto del mondo come lo conosciamo non sarà più.
Tu parli di “schiuma” in riferimento ad inascoltabili commenti omofobi. Non credo di poter essere accomunato a loro. Non più di di quanto possa esserlo un astrofisico ai rettiliani. Così come mi pare ovvio che non mi si possa attribuire in alcun modo una noncuranza verso i tanti suicidi perché discriminati e vessati per il loro orientamento. In una risposta a me non vedo che attinenza possa avere una tale questione. Lo ripeto, non più di voler vedere in te o in me, in quanto abortisti, dei corresponsabili del business delle multinazionali della genetica…..
Anche io ho visto salire molta schiuma. Quella di chi continua a definirsi di “sinistra” e non sa se non riprodurre pratiche e concezioni reazionarie, aristocratiche ed elitarie, frustrate e perdenti perché incapaci di guardare al loro tempo e di assumersi tutte le conseguenze del loro elitarismo. Di chi continua, da sinis-trato, a dare il proprio benestare, ad offrire la propria subalternità alle dinamiche genocide più sanguinarie a memoria d’uomo.
Alcuni ultimi appunti: sei ovviamente libero di desiderare di vivere dove meglio credi. E ci mancherebbe. Lo dico sul serio, fuor di retorica. Solo che io ho cercato, indipendentemente dalle opinioni, di fare del pensiero politico (nel mio piccolo, sia chiaro). Voglio dire che indipendentemente da come la si pensa sulla questione Usa, si dovrebbe riconoscere che sì, in effetti è vero che vi è una retorica sui diritti umani che supporta un certo tipo di strategia. Un filoamericano, un Antonio Baslini dei nostri tempi, mi darebbe ragione: non avrebbe problemi a negarlo. Il paradosso è che un filoamericano, quello sì palesemente e dichiaratamente ideologico ed interessato, sarebbe disposto a riconoscere l’importanza politica della presenza USA al Pride. Molti organizzatori, invece, intrisi di post-ideologia decostruzionistica, quindi accondiscendenti con l’ideologia del dominante, preferivano addurre ragioni di mecenatismo, negando l’enorme retroterra politico insito in quello di cui discutiamo.
Il dolore e la sofferenza che provo nell’assistere a certi spettacoli desolanti sta proprio nel vedere certa schiuma (quella di cui parlavo io) salire sempre più in superficie, vederla soffocare ambiti politici, parole d’ordine e pratiche collettive, con la sua subalternità ad interessi totalmente altri e che dovrebbero essere invece conflittualmente contrapposti.
Sono contento che il corteo sia stato bello e numeroso e che le bandiere NO MUOS siano state tante. Quest’anno non ce l’ho fatta ad esserci. Non per boicottaggio, come qualche opinionista da primarie del PD ha potuto pensare, perché un singolo che boicotta un’iniziativa collettiva, senza peraltro dire che lo sta facendo, sarebbe un idiota oltre che uno sprovveduto politico. Purtroppo la frattura politica che io ho denunciato rimane e, detto in confidenza (nei limiti che può avere la confidenza in un messaggio che sai sarà letto da molti), questa consapevolezza mi fa molto male, perché vedo il mio tempo con i suoi attori scolorire sempre più verso un grottesco terrificante. Se il mio dolore e la mia delusione rimangono (segno della mia vicinanza a certe rivendicazioni), rimane la desolazione di quello che si autodefinisce sinistra in questo paese (a livello parlamentare o di chi prova a rientrarci senza successo), che meriterebbe di finire in un girone infernale tutto per sé, quello degli utili idioti, con qualche concessione ai “bolliti” amici del giaguaro.
Spero di essermi spiegato meglio.
Cordialmente
Fabrizio