Per amore di Peppino non tacerò – Storia di un depistaggio continuo
Per amore di Peppino non tacerò
Storia di un depistaggio continuo
Il caso di Peppino Impastato è stato e continua ad essere un esempio tipico di depistaggio che, ad oggi, continua e si allarga anche verso direzioni impensabili. In principio non interessava nessuno. Anni di lotte, di iniziative, di richieste di giustizia, sono passati in silenzio, magari con qualche trafiletto di giornale. Cominciò dal momento della sua morte, nelle squallide stanze della caserma di Cinisi, quando i compagni di Peppino vennero messi sotto torchio dal giudice Signorino, dal maresciallo Travali e dal tenente Subranni, alla ricerca ostinata quanto inutile di qualcosa che potesse avallare la comoda ipotesi di un attentato terroristico compiuto da un esaltato che era andato a mettere una bomba sui binari della ferrovia per far esplodere un treno, ma che era saltato in aria a causa della sua inesperienza nel maneggiare gli esplosivi. Anzi, era possibile che con lui ci fosse un complice. In tal senso si perquisirono le case di cinque compagni. Qualche giorno dopo, con il ritrovamento della famosa “lettera”, si passò a un’altra ipotesi: suicidio. Quando ci si accorse (grazie alle mie ricerche) che quella lettera era datata sei mesi prima e che ne esisteva un’altra versione riveduta e corretta, cominciò a essere presa in considerazione l’ipotesi dell’omicidio. In un contesto di magistrati come il procuratore Scozzari, il procuratore aggiunto Giovanni Martorana, il procuratore generale Giovanni Pizzillo (tutti schierati sull’ipotesi dell’attentato terroristico) si parlò di un intervento del procuratore capo Gaetano Costa, il quale avrebbe chiesto al giudice Signorino di valutare attentamente l’ipotesi dell’omicidio. Di fatto dopo nove mesi, quando avevamo smesso di sperare, l’indagine venne formalizzata e affidata al giudice Rocco Chinnici, sino ad arrivare nel 1984 alla chiusura dell’inchiesta fatta dal giudice Antonino Caponnetto, con la conclusione “omicidio ad opera di ignoti”, e con la considerazione che gli “ignoti” erano da identificare nei mafiosi di Cinisi, contro i quali non si poteva procedere per mancanza di prove. Scrissi allora, con la collaborazione di Felicetta Vitale, un dossier dal titolo: “Notissimi ignoti”, indicando i nomi dei possibili assassini e facendo una considerazione: se, stando alle dichiarazioni di Buscetta, Badalamenti venne “posato” da Cosa Nostra ai primi mesi del ’78, l’omicidio (9 maggio) avrebbe potuto essere stato organizzato dal cugino Nino Badalamenti, che allora era stato nominato capofamiglia di Cinisi; se invece il boss fu posato nel settembre del 78, come sostiene Falcone, allora non c’erano dubbi sull’autore del delitto, perché a Cinisi come diceva Peppino “Non si muove foglia che Tano non voglia”.
Inizialmente tra alcuni compagni circolò l’idea che ci fossero in mezzo i servizi segreti, magari con la complicità di gruppi neofascisti. Ricordavano infatti di avere letto o ricevuto alcune lettere contenenti minacce di morte firmate SAM (squadre d’azione Mussolini). Cominciò a diffondersi la voce che Peppino era sulle tracce di un traffico d’armi, che aveva un dossier segreto e che aveva detto a un compagno: “Tra qualche giorno questa radio diventerà famosa”. La notizia improbabile della presunta esistenza di un dossier, venne anche pubblicata sul Giornale di Sicilia su segnalazione dell’avvocato Turi Lombardo, che allora aveva assunto assieme a Nuccio Di Napoli la difesa della famiglia Impastato. Dietro a tutto questo, di vero c’era solo che mesi prima, alcuni compagni, su sollecitazione di Peppino, avevano scattato una serie di fotografie ad una nave in sosta al largo nel mare prospiciente l’aeroporto, dalla quale alcuni elicotteri scaricavano armi per portarle alla vicina base Nato di Isola delle Femmine.
Intanto tentavamo di ricostruire gli ultimi movimenti di Peppino. La titolare del bar Munacò, che era il nostro punto di ritrovo, affermava che attorno alle ore venti egli era passato di là e aveva ordinato un whisky 69. Peppino beveva qualche fernet e nessuno lo aveva mai visto bere whisky; e poi che ci faceva a quell’ora al bar? Non avrebbe dovuto andare a salutare, a casa, i parenti venuti dall’America? Aveva qualche appuntamento con una persona di cui si fidava, che gli passava alcune informazioni e che lo avrebbe consegnato ai suoi assassini? Addirittura cominciò a circolare la voce di un possibile traditore, tra i compagni.
Altre ipotesi depistanti vennero fuori allorchè venne riaperta l’inchiesta per la seconda volta, nel 1986, dal giudice Ignazio De Francisci che prese in considerazione due ipotesi, ovvero che ad uccidere Peppino sarebbero stati i “corleonesi” di Totò Riina, per mettere in cattiva luce Badalamenti, facendo ricadere su di lui l’omicidio; oppure che nel delitto, secondo l’affermazione del neofascista Angelo Izzo, che l’avrebbe appreso dall’altro neofascista Pierluigi Concutelli, sarebbero stati implicati elementi di estrema destra, in particolare, un tal Roberto Miranda, detto “Il Nano”. Concutelli negò e l’inchiesta si chiuse nuovamente senza risultati.
Nel 1998 si arriva al processo che dura sino al 2002, nel corso del quale il depistaggio è portato avanti dall’avvocato siciliano di Badalamenti, Paolo Gullo, arroccato all’ipotesi dell’attentato, e dall’avvocato americano del boss, che invece tenta di scaricare l’omicidio sui corleonesi. Nel frattempo esce il film “I cento passi” (2000); la Commissione parlamentare Antimafia conclude i suoi lavori accertando il depistaggio delle indagini (1998-2000); escono alcuni libri sulla vita e sul lavoro politico di Peppino, che diventa una sorta di icona nazionale dell’antimafia.
Credo che la sentenza sia stata il punto più alto della nostra lotta. Il Centro Impastato e il fratello Giovanni hanno chiesto che si allargasse l’inchiesta ai responsabili del depistaggio. La Procura di Palermo, in particolare i giudici Ingroia e Del Bene, ha accettato questa richiesta avviando un’indagine che non si presenta facile sia per il tempo intercorso, circa 33 anni, sia perché molti dei responsabili non sono più in vita, sia perché quelli che possono testimoniare difficilmente saranno disposti a mettere in discussione il loro operato o a dichiarare cose diverse da quelle dette al processo o alla Commissione Antimafia. Qualcosa del genere si è verificata proprio in questi giorni con l’audizione del Generale Subranni, che non ha ritrattato di una virgola la presunta correttezza dei suoi rapporti, nei quali scriveva che Peppino era un terrorista e la mafia era innocente.
Molti giornali (partendo dall’ipotesi che “Peppino fa notizia”) manipolando certe discutibili affermazioni, hanno costruito castelli di ipotesi fantasiose e misteriose piste occulte che rischiano di sollevare un polverone e di continuare a tenere accesi i riflettori su un caso che, giudizialmente, sembra da tempo arrivato alla sua naturale conclusione.
E’ cominciato nel passato mese di luglio, allorchè si è dato per certo che nei sotterranei o negli archivi del Palazzo di Giustizia di Palermo giacessero, non si sa dove, buona parte dei documenti e degli scritti sottratti dalla casa di Peppino Impastato al momento della perquisizione fatta dopo la sua morte. Si è parlato di quattro sacchi di materiale portati via. Per quel che sappiamo tutti noi che siamo stati vicini a Peppino, si può escludere che tra le sue carte esistessero documenti segreti che potessero contenere chissà quali rivelazioni.
Il battage mediatico è continuato con l’individuazione della casellante che sarebbe stata in servizio la notte del 9 maggio 1978 nei paraggi del posto in cui si verificò l’esplosione che dilaniò il corpo di Peppino: una vecchietta di 85 anni che ha dichiarato di non ricordare niente e di non aver sentito niente. Eppure c’è stato chi ha ritenuto questo fatto “importante” e chi ha scritto su un giornale che si trattava di “un teste fondamentale per il processo”.
Successivamente sono stati rispolverati i nomi di neofascisti degli anni 70, quasi a volere ipotizzare occulti legami tra fascisti e mafiosi nell’omicidio di Peppino: si sa che Badalamenti ebbe un contatto con Junio Valerio Borghese quando nel 1970 costui meditava di fare un colpo di stato, ma i rapporti vennero presto interrotti: i suoi referenti politici a Cinisi non erano i neo-fascisti, ma i socialdemocratici di Leonardo Pandolfo e i democristiani.
In questi giorni è rispuntata la pista dei due carabinieri uccisi nel 1976 presso la casermetta di Alcamo Marina: una strage a sangue freddo della quale, all’inizio, furono incolpati quattro alcamesi (Gulotta, Santangelo, Ferrantelli ,Vesco) e un partinicese (Mandalà). Dei cinque Mandalà è morto in carcere di cancro; Vesco, come scritto da lui stesso alla madre, “è stato suicidato” sei mesi dopo il suo arresto, malgrado avesse un braccio solo; Gulotta, massacrato di botte assieme a Ferrantelli e Santangelo, è stato costretto a confessare un delitto che non aveva commesso ed è stato condannato all’ergastolo e liberato dopo 20 anni, perché riconosciuto innocente. Gli altri due sono scappati in Brasile.
Ma il caso di Vesco è ancora più inquietante: si è detto che era un anarchico, ma forse neanche lui sapeva di esserlo. Venne arrestato alcuni giorni dopo il delitto, perché trovato in possesso di una pistola. Durante una sua precedente detenzione al carcere di Favignana avrebbe frequentato un brigatista rosso che gli avrebbe fatto “prendere coscienza”. Chi conduceva le indagini si è lanciato a testa bassa verso un’ipotetica pista rossa incolpando prima le Brigate Rosse, che hanno subito smentito, e poi effettuando una serie di perquisizioni presso le case di esponenti noti di estrema sinistra (cinque a Castellammare e tre a Cinisi, compresa quella presso la casa di Peppino Impastato). Oggi leggiamo su qualche giornale che Peppino avrebbe raccolto in una “cartelletta” elementi riguardanti la strage di Alcamo e che quella specie di dossier non si è più trovato. Di vero c’è solo che i compagni di Castellammare e quelli di Cinisi, vicini a Lotta Continua, scrissero un volantino sull’episodio, ma nessuno ricorda l’esistenza di cartellette; né, come ci è capitato di leggere in un’altra notizia stampa, che Peppino raccogliesse elementi da trasmettere alla radio, anche perché in quel periodo Radio Aut non esisteva ancora. Insomma troppi dossier in giro misteriosamente scomparsi, su cui non c’è nulla si può dire di tutto.
Il pentito Vincenzo Calcara al processo per Gullotta ha sostenuto che i due ventenni carabinieri furono uccisi perché avevano fermato un mezzo con un carico di armi destinate all’organizzazione parafascista Gladio, che nella zona limitrofa, a Castelluzzo, aveva una base con un piccolo aeroporto. Secondo le dichiarazioni di Calcara i due militi sarebbero stati uccisi da emissari della mafia alcamese su probabile ordine di esponenti di Gladio. Del tutto strana la scoperta del delitto, fatta dagli uomini della scorta di Almirante che, trovandosi di passaggio alle sette di mattina da quelle parti, videro la porta della casermetta aperta. Si fermarono, vi entrarono e trovarono i cadaveri. Così com’è oscuro l’omicidio-suicidio di Vesco.
Ma qua passiamo nel profondo giallo e l’ipotesi di un accordo tra mafiosi e neofascisti prenderebbe corpo, magari collegando il fatto che la moglie del capomafia di Alcamo Vincenzo Rimi, era sorella di Teresa Vitale, moglie di Gaetano Badalamenti. E si aggiungono altri curiosi elementi: sul sito M News.it del 16 febbraio 2012 leggiamo che la “perquisizione a casa di Peppino Impastato venne condotta da un uomo di fiducia del capitano Giuseppe Russo: il nome del militare, oggi in congedo, è al momento top secret e al vaglio degli inquirenti”, ma si tratta dello stesso che partecipò agli interrogatori degli arrestati per la strage di Alcamo Marina.
E chi è il colonnello Giuseppe Russo? Secondo il pentito Francesco Di Carlo “La stazione dei carabinieri di Cinisi non li disturbava ai mafiosi. Facevano finta di niente perché ci avevano fatto parlare il colonnello Russo. Al colonnello Russo ci avevano fatto parlare i Salvo e Tanino Badalamenti e si comportavano bene”. Anche secondo il pentito Francesco Onorato “era risaputo che il Badalamenti avesse nelle mani i carabinieri del territorio di sua pertinenza”. La cosa, se vera, avrebbe una sua possibile spiegazione nel fatto che Luciano Liggio aveva deciso di eliminare il colonnello Russo, ma Gaetano Badalamenti si era opposto. La notizia è confermata da Giovanni Brusca. In tal senso Russo si sarebbe sdebitato nei confronti di chi lo avrebbe salvato, anche se lo stesso sarà ucciso alcuni mesi dopo, (20 agosto 1977) nel bosco della Ficuzza, a Corleone, assieme all’insegnante Costa. E così abbiamo altri elementi per fantasticare: Russo, o un suo uomo di fiducia, che conduce le indagini ad Alcamo e compie la perquisizione a casa di Peppino, Russo molto vicino a Badalamenti, Badalamenti cognato del boss di Alcamo, che avrebbe deciso l’eliminazione dei due carabinieri, testimoni di un passaggio di armi dalla mafia a Gladio oppure da Gladio alla mafia. Tutto questo non vuol dire niente o vuol dire ben poco se non ci sono riscontri che consentano di andare oltre le coincidenze o le presenze comuni.
Di queste coincidenze, che aprono la strada a spericolate fantasie, per non chiamarle depistaggi, ne sono state dette troppe. Peppino ucciso il 9 maggio stesso giorno di Moro. C’è un rapporto tra i due fatti. E, attraverso complicati percorsi, si scopre o si vuol far credere di scoprire che Gaetano Badalamenti sarebbe stato contattato da uomini dello stato affinchè, tramite uno della sua cosca, che allora era in carcere, si mettesse d’accordo con un esponente delle Brigate Rosse, in carcere con lui, per intercedere per la salvezza di Moro. Così essendo venuto a conoscenza della volontà delle Brigate Rosse di uccidere Moro, avrebbe deciso di fare uccidere Peppino nello stesso giorno, sperando che il delitto passasse inosservato o non vi si desse troppa attenzione. Geniale!!!
Oppure: il padre di Peppino è ucciso in un incidente sulla strada provinciale per Cinisi in tarda serata. L’antefatto: Luigi Impastato sta per chiudere la pizzeria e dice al cugino e socio: “io comincio a fare due passi, quando finisci ti fermi a prendermi”. Sulla via, dove allora c’era buio pesto, arriva a sostenuta velocità la signora Di Maria, reduce da una visita alla sorella di Carini, seguita da un’altra macchina guidata dal cognato. L’impatto con Luigi, che era ai bordi della strada, è violento e lo testimonia, come dice la stessa signora, un’ammaccatura della macchina vicino al faro destro. Peppino che, ai funerali non dà la mano ai mafiosi non lo fa perché li ritiene gli assassini di suo padre, ma perché li disprezza. E tuttavia, con il passar del tempo, si è cominciato a costruire il romanzetto secondo cui Luigi vivo era la garanzia che Peppino non sarebbe stato ucciso, sia perché non poteva farsi uno sgarbo a un uomo d’onore, sia perché avrebbero potuto nascere questioni con la cosca degli Impastato. E allora bisognava uccidere Luigi per uccidere Peppino. Bella storiella a cui, purtroppo è stato dato spazio, magari con l’avallo della ricostruzione fatta nel film, la quale lascia adito a questo sospetto.
Sorvoliamo su tutte le altre mistificazioni, generate da alcuni riferimenti fatti nel film su episodi che, da verisimili sono diventati veri e sui tentativi, sempre più frequenti in questi ultimi anni, di fare diventare Peppino come un esempio di lotta per il rispetto delle leggi dello stato, come un modello per promuovere l’educazione alla legalità, intesa come obbedienza passiva alle regole. La riduzione di Peppino ad icona per la salvaguardia delle istituzioni è una forzatura che contraddice tutte le sue scelte di ribelle, di agitatore, di comunista.
Non c’è dubbio che il rapporto con le istituzioni, dagli anni 70 ad oggi è profondamente cambiato, ma non sono cambiate le “idee” di Peppino. I compagni che ne costudiscono la memoria sanno bene che dietro certe ricostruzioni forzate della sua immagine c’è spesso voglia di protagonismo o desiderio giornalistico di stupire “arrangiando” una notizia. Per questo conservo la stima nei confronti dell’operato dei giudici che cercano di scoprire nuove piste: quella della stagione dei depistaggi, del tentativo di ricercare colpevoli di misfatti tra elementi dell’estrema sinistra, è stata una strategia comune sia per il delitto di Alcamo Marina che per quello di Peppino. Ma già era iniziata nel 68, con la strage di Piazza Fontana. In quegli anni Dalla Chiesa comandava la caserma Cascino. Dalla Chiesa, Russo, Subranni: due di essi sono stati uccisi dalla mafia e l’ipotesi di misteriosi contatti tra poteri occulti (mafia, massoneria, neofascismo) rimane avvolta dalla nebbia dei misteri italiani irrisolti. Per fortuna, nel caso di Peppino, una soluzione c’è stata. Conquistata dopo 22 anni di lotte, illusioni, speranze, delusioni, soddisfazioni, certezze. E’ il caso di rimetterla in discussione?
(Salvo Vitale)