Nomina nuda tenemus
L’articolo che segue è stato scritto dopo aver letto quanto Roberto Saviano ha scritto del libro “Gramsci e Turati. Le due sinistre” del Prof Alessandro Orsini.
L’articolo è rintracciabile a questo link
Quando ho letto l’articolo che Saviano ha scritto il 28 febbraio su Repubblica, l’ormai famoso Elogio dei riformisti, ho avuto per un attimo la tentazione di scrivere un’improbabile lettera aperta, ma ho scartato l’opzione perché non voglio contribuire a trasformare ogni discussione in baraonda mediatica e trovo inverosimile chiedergli conto e ragione o addirittura suggerirgli qualcosa. So bene che per Saviano è necessario abitare costantemente i media e creare dibattito pubblico, lo ha più volte dichiarato ed è coerente con la delicatissima condizione in cui si è trovato a vivere da quando Gomorra ha visto le sue prime riuscitissime pubblicazioni. Resta però la questione di fondo dell’articolo sui riformisti e sul nuovo saggio di Orsini – Gramsci e Turati. Le due sinistre – da cui Saviano prende le mosse per le sue singolari argomentazioni.
Nell’articolo in questione, Saviano definisce il testo di Orsini “uno strumento di comprensione” che, a suo avviso, “difenderebbe il giovane lettore dai nemici del dialogo, dai fautori del litigio, dagli attaccabrighe pronti a parlare in nome della classe operaia, degli emarginati, degli invisibili, dai pacifisti talmente violenti da usare la pace come strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente”. Non ritengo opportuno in questa sede entrare nel merito delle questioni sollevate da Orsini, che richiederebbero uno specifico studio specialistico, e sorvolo con difficoltà sulla decisione di sostenere una tesi che finisce per proporre il ritratto di un Gramsci violento e rozzo nelle pratiche politiche. Certe frasi di circostanza utilizzate da Saviano per attenuare la durezza dei giudizi su Gramsci sembrano a volte talmente semplicistiche che a leggere cose del tipo “le sue [di Gramsci] parole risentivano l’influenza della retorica politica dell’epoca, che era (non solo a sinistra) accesa, virulenta, pirotecnica” verrebbe voglia di alzare il dito per ricordare che un regime ventennale, affermatosi con l’epopea delle squadracce, la marcia su Roma e la soppressione di tutte le libertà, meritava qualcosa di più di un “non solo a sinistra”. Ritengo poi che la sterminata bibliografia e l’imponente interesse degli studiosi di tutto il mondo per il pensatore e dirigente politico sardo possa rispondere meglio di chiunque altro.
Quello che trovo incredibile è la superficialità con cui Saviano ha deciso di applicare alla nostra contemporaneità, in blocco e in maniera assai unidirezionale, lo schema ricavato da quei confronti. Nel giro di pochissime righe, infatti, la riflessione sui rapporti tra riformismo di stampo turatiano e paradigma rivoluzionario gramsciano si trasforma, senza tappe di avvicinamento che consentano almeno di prendere le misure, in un fantasmagorico e strambo parallelismo. Da una parte troviamo una sinistra extraparlamentare composta da “sopravvissuti di un estremismo massimalista che sostiene di avere la verità unica tra le mani”, “seguaci dell’unica idea possibile di libertà”, intolleranti che “amano Cuba e non rispondono dei crimini della dittatura castrista […], non rispondono dei crimini di Hamas o Hezbollah, hanno in simpatia regimi ferocissimi solo perché antiamericani, tollerano le peggiori barbarie e si indignano per le contraddizioni delle democrazie. Per loro tutti gli altri sono venduti. Mai che li sfiori l’idea che essere marginali e inascoltati nel loro caso non è sinonimo di purezza, ma spesso semplicemente mancanza di merito”. Dall’altra parte ammiriamo gli eredi di un Turati che “a tutto questo avrebbe pacificamente opposto il diritto a essere eretici”, i soggetti politici che hanno finalmente imparato a rinunciare all’“eredità peggiore della pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista”, perché “oggi, nel Pd erede del Pci, non c’è più traccia di quel massimalismo verboso e violento, e anche il linguaggio della Sel di Vendola è molto meno acceso.”.
Nello schema proposto da Saviano spariscono quindi percorsi politici, storie, identità, lotte, specificità di tutti coloro che quotidianamente, in un isolamento spaventoso e abbandonati da istituzioni definitivamente orientate alle logiche della più spietata governance, si battono per una società costruita su quei diritti per cui lo stesso Saviano afferma di battersi. Tutto diventa astrazione, hegelismo senza rapporto con la realtà, e così troviamo i rivoluzionari e i riformisti, gli utopisti incapaci di comprendere le ragioni dell’altro e i realisti che faticosamente guardano a una concreta politica dei piccoli passi, i riformisti contro i fascisti e i brigatisti.
Quello che però dimentica di fare Saviano, forse perso nella dimensione onnivora di una scrittura ormai autoproclamatasi sovrana assoluta della propria legittimazione, è di specificare a cosa sta pensando quando, nell’Italia di oggi, ripropone quelle parole e quei concetti. Il riformismo capace di costruire una società più giusta cosa ha a che fare con le riforme che negli ultimi decenni hanno devastato l’istruzione pubblica, la sanità e il welfare nel nostro paese? I movimenti in difesa dell’acqua pubblica non hanno forse dovuto combattere una battaglia epocale per dire no ad alcune riforme proposte dai recenti governi di questo paese? Le leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini, responsabili di uno stato di sfruttamento dei migranti che lascia ancora oggi senza parole, non erano forse delle riforme? Cosa pensa Saviano delle riforme del mondo del lavoro che in pochi anni hanno trasformato le vite di milioni di italiani in inferni fatti di precarizzazione e umiliazioni quotidiane? Quale dovrebbe essere il nostro giudizio nei confronti della storia ventennale di una sinistra (politica e sindacale) riformista italiana che ha lentamente lasciato erodere i diritti dei lavoratori e dei cittadini italiani, non impedendo – o peggio ancora accettando – che finissero preda delle peggiori speculazioni finanziarie? Difendere l’ambiente dalle devastazioni cui assistiamo quotidianamente e ritenere anticostituzionale la presenza dei militari italiani nei numerosi fronti di guerra sparsi in tutto il globo è rivoluzionario o riformista? In che modo andrebbe inquadrata la crisi devastante degli stati nazione europei all’interno di uno schema che oppone i cattivi violenti da una parte e i buoni e disponibili dall’altra?
Si potrebbe continuare a lungo, perché dietro le parole di Saviano si vedono sfilare i volti di tutti i licenziati e cassintegrati che in questo momento vengono abbandonati alla deriva da un capitalismo privo ormai di qualunque freno, si intravedono le facce di tutti coloro che a L’Aquila o in Val di Susa, contro il MUOS o il Ponte sullo Stretto di Messina, hanno cercato e cercano di porre degli argini a un sistema che non regge più. Ma tutto questo Saviano non lo vede, il suo motorino non si aggira più per i vicoli di Napoli e sono finiti i tempi dei pellegrinaggi alle tombe illustri. Resta l’amarezza di un confronto difficile, se non impossibile, tra uno dei più affascinanti testi di denuncia degli ultimi decenni, perché Gomorra è e resterà questo, e qualche raro discorso pronunciato in favore delle politiche repressive attuate da Israele nella striscia di Gaza.
Ci sarebbe da chiedere a Saviano perché dei soggetti tanto isolati e marginali come i massimalisti della sinistra extraparlamentare meritino ancora oggi un dibattito aspro, inattuale e surreale di questo tipo. Ci sarebbe ancora da chiedergli in che senso l’apartheid imposto ai palestinesi possa essere considerato esemplare di una “pedagogia della tolleranza [che] è il primo passo per la costruzione di una società migliore”. Verrebbe perfino voglia di chiedergli se quel Peppino Impastato cui ha dimostrato di credere a tal punto da venire fino a Cinisi per visitarne la casa, rientrerebbe nello schema tra quei massimalisti inesorabilmente bollati come violenti utopisti, ma l’amarezza impedisce di continuare a scrivere. A questo punto resta forse da riconoscere, in pieno postmoderno, sperando di sbagliarsi e di aver frainteso l’inequivocabile, che ancora una volta nomina nuda tenemus
G.D.B.
A proposito delle citazioni di Gramsci utilizzate da Saviano, ho già scritto sul mio blog e qui non mi ripeto.
La mia impressione è che Saviano col suo articolo abbia voluto più che altro “regolare i conti” con certi settori della sinistra marxista che lo hanno attaccato duramente negli anni scorsi.
Solo che lo ha fatto nel modo sbagliato.
Paradossalmente Saviano è caduto in un vizio antico della sinistra italiana, quello di piegare strumentalmente il discorso teorico e storico a fini di polemica contingente.
In altre parole, Saviano nei mesi scorsi ha deciso di non rispondere alle critiche (anche ingiuste) rivoltegli dai vari Dal Lago, Sepe, Bascetta o Evangelisti. E fin qui O.K., è una sua scelta.
Adesso però se ne esce con questo articolo, dove per togliersi il suo sassolino dalla scarpa se la prende nientemeno con Antonio Gramsci e con l’intera tradizione marxista italiana.
Tra l’altro, non è neppure vero che “i comunisti” in blocco lo abbiano attaccato. Quando uscì la polemica concertata dalla casa editrice del “manifesto” contro di lui, ad esempio, la redazione di “Carmilla” pubblicò un dossier molto dettagliato che demoliva il libro di Dal Lago; i Wu Ming, sul loro blog e altrove, si schierarono con lui; sulle stesse pagine del “manifesto” la direzione del giornale pubblicò un editoriale in difesa di Saviano, ecc. ecc.
Tanto più è ingiusto, quindi, anche sul piano personale, che adesso Saviano faccia di tutta l’erba un fascio, attaccando indiscriminatamente “i rossi” con argomentazioni ridicole e ideologiche, da “Libro nero del comunismo”.
Per ragioni di completezza, pubblico qui la risposta che Alessandro Orsini ha scritto a uno dei suoi recensori più critici, il prof. D’Orsi. Credo possa essere utile per una comprensione più piena della questione:
Angelo D’Orsi, professore nell’Università di Torino, ha attaccato Roberto Saviano per avere recensito il mio ultimo libro su Repubblica (Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino): “Saviano – ha detto − l’ha fatta fuori del vaso e il libro di Orsini è una porcheria”. D’Orsi ha addirittura dichiarato che Saviano “andrebbe fermato”, limitandolo nella parola.
Lo sfogo di D’Orsi conferma la mia tesi. Due sono le principali culture politiche della sinistra.
Vi è la sinistra di Gramsci, il quale invitava a chiamare “porci”, “scatarri”, “pulitori di cessi” e “stracci mestruati” coloro che erano in disaccordo con i suoi convincimenti ideologici; e vi è la sinistra di Turati che condannava l’insulto e promuoveva il libero confronto delle idee.
La sinistra di Gramsci produce un tipo di intellettuale che ricorda la figura del chierico della Chiesa medievale: è un organo del Partito. E il Partito è concepito leninisticamente come una macchina da guerra il cui dichiarato obbiettivo è la dittatura. Certo, nei Quaderni, Gramsci alla strategia della “guerra di movimento” oppose la strategia della “guerra di posizione”. Ma si trattava pur sempre di guerra. E in guerra non c’è spazio per la tolleranza. C’è solo un imperativo: annientare l’avversario incominciando con la sua degradazione morale, che non può fare a meno dell’insulto.
Sotto il profilo del metodo, D’Orsi ha attaccato il mio libro perché, a suo dire, non terrebbe in considerazione il contesto in cui Gramsci pronunciava le offese e gli inviti alla violenza contro i suoi critici. A D’Orsi rispondo che il contesto storico-politico in cui vissero Gramsci e Turati fu lo stesso. Nonostante ciò, Gramsci e Turati difesero principi e valori opposti, come ho spiegato nella nota sul metodo che chiude il volume.
Gli uomini, pur essendo influenzati dal contesto in cui vivono, rispondono in maniera differente davanti agli stessi stimoli. Questa diversità nel rispondere in situazioni analoghe è, in larga parte, una conseguenza dei valori interiorizzati dall’individuo. La crisi economica che investì la Repubblica di Weimar coinvolse milioni di tedeschi, ma non tutti abbracciarono il nazismo. Allo stesso modo, non tutti i professori universitari italiani giurarono fedeltà a Mussolini. Gli uomini non rispondono in maniera meccanica agli stimoli che ricevono dall’ambiente esterno.
Gli uomini scelgono.
Gramsci e Turati militavano nello stesso partito quando Mussolini si affermò al congresso socialista di Reggio Emilia; quando ci fu il biennio rosso; quando Lenin impose il Terrore; quando Mussolini conquistò il potere. Eppure, scelsero valori opposti, perché le loro culture politiche erano inconciliabili. Turati promosse sempre la pedagogia della tolleranza. Gramsci, invece, la pedagogia dell’intolleranza e l’elogio dell’insulto.
Il metodo dell’analisi culturale comparata − che ho impiegato per la prima volta nello studio della figura di Gramsci − ha esattamente questo obiettivo: mostrare il potere condizionante delle culture politiche e delle teorie pedagogiche, le quali non coincidono con l’azione, ma la predispongono in maniera decisiva. Alessandro Orsini
Allora: io il libro di Orsini non l’ho letto. Posso parlare, e ho parlato, dell’articolo di Saviano su “Repubblica” del 28 febbraio.
E rilevo che, in questo suo pezzo, Saviano:
1) non solo ha parlato del pensiero di Gramsci astraendo dal suo contesto storico;
2) non solo ha preso in considerazione solo alcuni scritti di Gramsci, astraendoli dal complesso del pensiero di quest’autore e dalla sua linea di sviluppo (tra l’altro, si tratta di scritti giovanili di minore importanza: erano dei trafiletti di cronaca cittadina che Gramsci scriveva per le pagine torinesi dell’Avanti);
3) ma ha addirittura preso, di ognuno di tali scritti, solo alcune parole ed espressioni, astraendole dal contenuto dell’intero brano.
E, basandosi su queste poche citazioni, tre volte avulse, Saviano ha preteso di impiantare una ricostruzione teorico-storica generale dell’intero pensiero della sinistra italiana.
E’ un’operazione, quella di Saviano, che si commenta da sé.
Quanto ad Orsini, ripeto, non ho letto il libro. Però, stando solamente a quanto Orsini scrive qui sopra: affermare che in Gramsci “il Partito è concepito leninisticamente come una macchina da guerra il cui dichiarato obbiettivo è la dittatura”; affermare che Gramsci propugnasse “solo un imperativo: annientare l’avversario incominciando con la sua degradazione morale, che non può fare a meno dell’insulto”; ecco, affermare queste cose significa dire delle falsità, pure e semplici. Non è neanche questione di interpretazione del pensiero di Gramsci: basta aver letto, anche superficialmente, i “Quaderni del carcere”, per sapere che queste affermazioni di Orsini sono sciocchezze.
Gentile Salvatore, come fa a dire che Orsini nel suo libro afferma delle falsità nel riportare il pensiero di Gramsci se non ha letto il libro?
Se avrà modo di leggere il libro – glielo consiglio altrimenti è difficile anche comprendere l’articolo di stesso Saviano che è prima di tutto una recensione – vedrà l’imponente ricerca di documenti a suffragio delle tesi di Orsini sul messaggio politico di Gramsci.
Quindi, o sono false le citazioni di Orsini sugli scritti di Gramsci oppure, mi perdoni, ma il suo giudizio è alquanto superficiale.
certo è difficile ammettere di aver avuto di aver avuto dei cattivi insergnanti;
ma il problema non è quello che ha detto Gramsci dei riformisti ma quello che Tutrati ha detto dei massimalisti: e sinceramente non gli si può dar torto (un esempio per tutti: il patto Molotov- Ribbentrop).
Consiglio a voi tutti del Valium e del Pantorc