Palermo e la “politica del fare” (ovvero perché mi incazzo se lo chiami hobby)
Innanzitutto per una questione epistemologica, barbaramente filologica: un hobby è qualcosa che si fa per occupare del tempo libero. Dal lavoro, è ovvio.
E il tempo libero è una cosa geniale su cui diversi regimi hanno costruito la propria spina dorsale, il proprio scheletro votante e consumante (potrei cambiare l’ordine dei fattori?), e sostenuto la propria testa pensante, parlante e dominante. Il tempo libero è il tempo in cui la formica lavoratrice è libera, finalmente, di spendere i suoi sudati scudi, per comprare gli strumenti necessari a farne un tempo libero di qualità: scarpe da calcio, calcetto, corsa, barca, trekking, obiettivi, lenti, meccaniche, collezioni di ritrovati da mercatino, una bella attrezzatura da sci, da sub, da palombaro. O anche una leggerissima bicicletta innovativa, col corredo imprescindibile di tutine, scarpine, mutandine, caschetti e altri ammennicoli più o meno elastici. Non incazzatevi voi che avete una passione, solo, siate consapevoli della vostra indispensabilità di liberi consumatori dell’industria del tempo libero.
Fatte queste premesse e scusandomi già con chi ho messo nel fascio sbagliato per furore fresco di giornata, vengo al dunque. E il dunque è che: la legge italiana definisce hobbisti una schiera di personaggi che per precarietà, per ripiego, per passione certo, ma soprattutto per eccesso di ottimismo, volontà ed energia, si inventano un lavoro e si espongono. Questi hobbisti, in maggior parte donne, per la verità (ma lasciamo perdere le retoriche declinazioni dell’artigianato in rosa, impresa al femminile, eccezione, titanica realizzazione che per tradizione e fallica idiozia parrebbe invece essere cosa villosa, da maschi), non rientrano certo nelle coorti dei consumatori dopolavoristi del tempo libero, perché non hanno lavoro, quindi non hanno tempo libero. Chiaro come il più semplice dei sillogismi. E non vi rientrano anche perché loro, gli hobbisti alle sagre del dopolavoro producono, espongono, vendono il frutto del loro autonomo, inventato, faticoso, organizzato, associato, accampato e non riconosciuto lavoro. E io mi incazzo. Mi incazzo furiosamente di fronte alla impermeabilità o inconsapevolezza di alcuni e al candore con cui tanto ingegno e tanto lavoro vengono svenduti in cambio di un posto dove esporre, al prezzo di una richiesta di appoggio elettorale e a fronte della cifra simbolica di euro dieci.
Ho preso parte ad una mostra di artigianato. Solo dopo aver pagato la quota di partecipazione ho scoperto che l’evento era patrocinato in incognito da uno dei candidati a sindaco di carognopoli. Ho deciso di partecipare comunque e di sfruttare almeno l’occasione, pagata. Poco, certo.
Il giorno in cui si sarebbe conclusa la mostra, ecco infine attuato il colpo gobbo: giro dei banchetti con santini elettorali. “sostienimi, senza di te il Nostro progetto non lo possiamo realizzare! Voglio dare un’opportunità a tutti, voglio farti lavorare: anch’io ero artigiano a sedici anni!” Poi ho scelto (credo avrebbe continuato così), ho scelto il consiglio comunale, la vocazione elettorale, la politica del fare. La città che fa? Non capisce quello che alle sue spalle si fa? Avete mai sentito parlare dell’Opera Nazionale Dopolavoro? Di irreggimentazione delle masse? No, certo, qui non c’è pericolo, paturnie da hobbista.
Ah, ho venduto più del previsto, non pensiate che sia lo sfogo di una che non ha fatto cassa.
(Questo articolo ci è stato segnalato da Gwena Cipolla ed è tratto da questo blog)